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GRANA, la disputa millenaria: padano o emiliano?

Raccontano 1000 anni di storia, 10 secoli di sapienza monastica divenuta nutrimento del corpo e non solo dello spirito. L’anno scorso, Grana Padano e Parmigiano Reggiano hanno mosso 4.472 milioni di euro. D’altronde, già nel cuore del ’500 il loro antenato era richiesto da mezza Europa. E già allora, a mezzo millennio dalla prima caseificazione, deliziava anche «i Reverendi Abbati, Vescovi,  Arcivescovi, Cardinali e Papi, i Conti, Marchesi, Duchi, Arciduchi, i Re e gli Imperadori».

Ecco il «cacio piacentino», altrove detto «Melanese», «Lodesano», «Brassiano» piuttosto che «Mantoano» o «Veneto». E ovviamente «Parmesano», anche se il forestiero che pronunciava per tutti il nome «Grana» poteva star certo di essere compreso. Lo riferisce il conte Giulio Landi, feudatario di Caselle, nella sua Formaggiata: una lode al «Serenissimo re della virtude», il latticino a pasta granulosa e cotta che il nobile dona al cardinale Ippolito de’ Medici insieme a quel bizzarro componimento.

Tradizione vuole che la prima forma a pasta di «grana» sia stata prodotta nel 1135, in concomitanza con la fondazione dell’abbazia di Chiaravalle milanese. È quanto riportano gli agronomi Arrigo Caleffi ed Eugenia Mazzali, che nel loro Accadde molti secoli fa... Grana Padano
(2000), ricordano l’origine delle grance: le comunità agrarie sorte all’ombra dei grandi monasteri benedettini e cistercensi; quelle stesse che «riportarono la valle del Po a una condizione vivibile, bonificando terre basse e impaludate, sistemando prati e marcite, e dando vita ai primi allevamenti di bestiame di questa nuova era».
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Allevamenti, cioè latte in abbondanza. Sempre più in eccesso. Ecco allora l’intuizione di un formaggio che ne richiedesse in gran quantità, che stagionasse, che durasse nel tempo. Che inaugurasse una sorta di
green economy, in cui nulla si perdesse di ciò che natura aveva donato. Nasce così il caseus vetus, quel «cacio vecchio » così inizialmente chiamato dai suoi religiosi artefici cultori del latino.
Eppure, la data del 1135 non convince. Come nota Valerio Ferrari, studioso di storia naturale e antropica padana, «è poco credibile pensare che i Cistercensi di Chiaravalle, appena fondato il nucleo di quella che sarebbe divenuta la celebre abbazia, si fossero messi a inventare formaggi mai visti prima. Probabilmente – considera – a loro va attribuito il merito di aver perfezionato tecniche già conosciute'. Che ci riportano dunque indietro di almeno un secolo, a 1000 anni e forse oltre da oggi, quando alcuni ordini religiosi avviarono l’allevamento bovino.
L'abbazia di Abbadia Cerreto (Lodi)
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Sta di fatto che la prima testimonianza certa porta la data del 1254, e associa il formaggio alla città emiliana: in un atto notarile custodito a Genova nell’Archivio di Stato si legge infatti casei paramensis, cioè «(di) formaggio parmigiano ». Idem un secolo più tardi: Giovanni Boccaccio, elevando quel latticino a leccornia dell’immaginario paese di Bengodi, scrive nel suo Decameron «eravi una montagna tutta di parmigiano grattugiato».
La marchiatura delle forme
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Che il granuloso formaggio sia dunque nato oltre il Po? Landi dissente: con quel nome non bisogna intendere il luogo che per primo «inventò » il «Serenissimo», bensì il suo maggior centro di smercio. Una cosa è certa: ai suoi tempi, il monastero benedettino di San Giovanni Evangelista a Parma già coordinava una rete di grance di cui il
caseus vetus era il fiore all’occhiello. Ma attenzione. Nel XVIII secolo, il libertino avventuriero Giacomo Casanova sconfessa sia la teoria di Parma, sia quella di Chiaravalle. E avvalora, seppure indirettamente, l’ipotesi di Ferrari. Lo fa nella sua autobiografia, dove rammenta all’«Europa ingrata» che l’«eccellente formaggio» detto «Parmigiano...
in realtà, non è di Parma, ma di Lodi». E più d’una fonte, a voler ben vedere, indica nel Granone lodigiano il progenitore di tutti i «Grana».

Il caratteristico metallico per il trasporto del latte 
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Poco importa: il 'nuovo' vecchio caseus nacque nella Valle del Po, e col tempo si allargò all’Appennino. Fuorviante solo in apparenza Giulio Cesare Croce (1550-1609), che alla lettera «V» de L’Alfabett in lod dol buon formai recita: «Virgilio nella bucolica che fece, sopra ogni cosa loda il buon Formaggio». Nessun dubbio che il prodotto di 1600 anni prima fosse molto diverso dal 'nuovo' «Mantoano», ma è comunque suggestivo ricordare che, quando il cantastorie bolognese scrive il suo giocoso abbecedario, nelle terre dell’alto Mincio i Gonzaga già da tempo irrigano i prati stabili: distese a vegetazione grassa e spontanea, alcune delle quali ancor oggi alimentano un particolare Grana Padano.

È il Settecento a vedere i primi studi sull’antico cacio, mentre il secolo successivo testimonia in area emiliana il rifiuto dei conservanti: la prima vera differenza tra Parmigiano Reggiano e Grana Padano, i cui produttori nel 1934 e 1954 fondano i rispettivi consorzi e scelgono la linea del Po quale confine naturale tra i 2 marchi. Nel frattempo, la Convenzione di Stresa del 1951 aveva deciso di separare i 2 colossi, imponendo precisi disciplinari di produzione e dichiarando il Grana Padano erede dell’antico Lodigiano. Ultimo di alcuni atti normativi, il riconoscimento Dop (Denominazione d’origine protetta) conferito nel 1996 dall’allora Comunità europea (Ce).

Oggi, è la storia a orientare il futuro: Ettore Capri, docente di Chimica agraria alla Cattolica di Piacenza, ha da poco inaugurato uno studio sul ciclo di vita del Grana. Vuole tornare alle origini, eliminare quanto più possibile l’impatto ambientale della sua produzione. A lui non interessano le dispute sul luogo preciso in cui nacque la prima forma: «Il Grana – scandisce – è il formaggio di questi territori con i loro paesaggi, la gente che li popola, la sua cultura millenaria. E i suoi ordini religiosi, che hanno mostrato il valore sociale dei beni scaturiti da un perfetto ecosistema agroforestale».
avvenire.it

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