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Per Rothko l’arte possiede un’intima sacralità.

Attinge all’origine della vita e della storia, è espressione di trascendenza, è attesa dell’Assoluto. In un dipinto del 1954 (o forse del 1959, gli storici non concordano sulla data), Untitled (White on Maroon), una forma bianca, spessa, vaporosa, soffice come massa di cotone, sfumata ai bordi e dalla forma vagamente rettangolare campeggia su di un piano rosso su cui si staglia altra sagoma, in basso, colore su colore. La sensazione di un luogo del mistero sacro dominato dalla bellezza, dal puro invisibile e spirituale, è fortissima.

La conclusione tragica della vita di Rothko, che morì suicida nel 1970, non deve far pensare a una aridità spirituale, semmai a una drammatica crisi. Certe sue opere dell’ultimo periodo, tutte giocate su toni scuri, su neri e rossi profondi, sono crocifissi della coscienza dilacerata. Crocifissi senza speranza. Che altresì riguardavano non solo la sua coscienza religiosa ma anche il ruolo che eticamente aveva assunto in sé, quello di un maestro non solo dell’arte ma anche dello spirito. Ci si può chiedere infatti se, al di là della depressione conseguente alla salute oltremodo precaria che tormentò l’uomo negli ultimi anni della vita, il suo drammatico gesto abbia configurato la cifra peraltro inverosimile di un fallimento morale.

Certo è che l’arte di Rothko ha un suo cammino di progressiva essenzializzazione che non riguarda solo l’aspetto stilistico, ma che attiene al senso stesso della sua opera e della stessa arte. Nel tempo i cromatismi perdono ogni frangia o sfumatura dei sensi rapportati alla realtà e si pongono nudi al cospetto dell’infinito. Alcune opere conclusive, soprattutto i neri, i colori scuri comunque uniformi, sono la testimonianza non di una povertà di espressione sopraggiunta nel tempo della crisi ma di una personale sintesi del linguaggio maturata sul filo di una ricerca estrema, drammatica e definitiva.

Rothko ha puntato, come si è scritto, lungo il suo cammino d’artista, a due obiettivi: il primo inerente al valore comunicativo dell’arte intesa come luogo del dialogo tra l’opera e lo spettatore; il secondo più intrinseco all’opera stessa, percepita come espressione originaria di un altrove imprescindibile e misterioso.

Riguardo al primo obiettivo, l’opera è universo che esiste in funzione dell’osservatore, è pensata dall’artista perché esso ne faccia parte e possa compiervi un’avventura d’anima. Sicché l’intera esperienza dell’artista è tesa a predisporre tale avventura. Lo spettatore è chiamato a essere in qualche misura comprimario non della redazione dell’opera ma di un comune progetto spirituale.

Il secondo obiettivo riguarda invece il senso del viaggio dentro l’opera e implicitamente il suo originario significato, come avvertimento ed esplorazione di quell’oltre a cui tendono i sensi e l’anima. Una rilettura del cammino artistico di Rothko può essere in tal senso interessante, dando riprova del dramma umano e spirituale del maestro. Il significato dell’opera di Rothko si esemplifica nell’ultimo grande e significativo lavoro del maestro, la Cappella di Houston.

Le parole che l’artista scrisse nel 1965 a John e Dominique de Menil, allorché fu incaricato di realizzare i dipinti per la celebre Chapel di Houston sono di entusiasmo, di gratitudine profonda. L’artista intravedeva nel lavoro commissionato l’opportunità di una totale avventura dello spirito.

«Mi insegna a librarmi in alto», scrive commosso. È con questi sentimenti e con una tensione psicologica estrema che l’artista si accinge a lavorare. È un’avventura che assume il tono di un’esperienza religiosa. Fu lo stesso Rothko a dichiararlo. Commentando l’effetto che i dipinti della cappella avevano sul pubblico, disse: «Quando [i visitatori] piangono davanti ai miei quadri vivono la stessa esperienza religiosa che ho vissuto io quando li ho dipinti». Anche il clima della cappella, concentrato e mistico, al di là della scelta di una iconografia aconfessionale, pare restituire «un versante religioso che porta l’artista a semplificare tutto, quasi cercasse il dio unitario della Bibbia contro ogni vitello d’oro». Di fatto la teologia monoteista e Jung furono i suoi pilastri.

L’artista venne incaricato di indirizzare anche la progettazione architettonica e per essa scelse una forma ottagonale, simile a quella di un battistero, quasi volesse suggerire al visitatore un rito di iniziazione. A Huston Rothko realizzò 14 opere di grande formato, tre trittici e cinque quadri singoli. La luce proviene dall’alto, è indiretta e diffusa. I trittici furono collocati sui due lati principali, a destra e a sinistra. Tra di essi un grande pannello centrale leggermente rialzato. Il trittico posto sul fondo, invece, collocato in una nicchia, è assolutamente regolare. 

Qui il movimento irregolare, si direbbe a onda, dei trittici laterali si arresta, ha una pausa. Singole tele sono poste sui lati obliqui, fanno da contrappunto ai trittici. Lo spazio è studiato nel suo insieme e così il suo apparato iconografico: le tele sono parte del tutto ed è l’insieme a restituire il senso di un’atmosfera sospesa e contemplativa, che scava dentro, che immette nel mistero. Le stesse piccole porte ricavate sulle pareti laterali sono pensate in relazione all’intera tensione emotiva e psicologica della cappella; di fatto non sembrano più porte, ma si collegano visivamente alla teoria delle tele. La cappella è chiusa in sé, abbandona il mondo, immerge in un universo ulteriore. Lo sguardo è come «inaspettatamente invischiato, intrappolato tra le presenze cieche e mute che sono i pannelli murali».

Il colore delle tele è tendente al viola scuro ed è cangiante a seconda della luce e dei momenti della giornata. Tutto appare nella cappella come lungamente studiato. Del resto l’artista aveva riprodotto la cappella nel suo studio, innalzando pareti di cartone di identiche misure, per poter lavorare nel concreto di un mimetico effetto visivo. Sembra che gli stessi committenti abbiano suggerito all’artista l’idea di una cappella ecumenica, ma l’opera nel suo complesso interpreta piuttosto un invito ad un viaggio personale, al di là di ogni confessione. Il nero dei suoi ultimi lavori, i vari Untitled del 1969, della serie Black on Gray, restituisce il senso di un mistero portato all’estremità del buio. È la zona alta dell’opera ad essere compatta, impetrabile. Il primo piano è di un grigio lievemente variegato, di un colore opalescente. Di chi, ormai distante dalle cose del mondo, sia sul confine della vita, pronto all’esodo. Questa condizione appare singolarmente segnata dal bordo del dipinto. Una sorta di cornice bianca chiude lo sguardo ed è una novità rispetto al passato, allorché i dipinti non avevano fine, continuavano anche sui bordi, annettevano lo spazio.

D’altra parte se tutta l’opera di Rothko si può interpretare come immersione ed esplorazione muta dell’oltre, come confronto tra il qui e l’altrove, nelle ultime opere questo confronto sembra perduto. Siamo ormai sulla soglia. Che l’oltre si presenti come mistero invisibile e inconosciuto, non toglie che il cammino risulti tracciato. È una condizione dell’anima che l’artista stigmatizza, certamente connessa con il suo stato psichico, non in senso depressivo, ma nella maturata convinzione di essere alla fine. È il silenzio di Dio che lo porta alla depressione? Quel buio così prossimo alla notte mistica narrata dai santi? È difficile dire. Il suo buio non è assenza, semmai presenza incombente, persino luminosa.
avvenire.it

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