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Nell'Atelier di Reggio Emilia. L'arte che non cancella l'errore

La Fenice inclina il lungo collo assumendo la posizione inconfondibile di tanti bestiari medievali. Un’immagine così non sfigurerebbe nel Libro di Kells, il capolavoro della miniatura irlandese. Invece è stata dipinta di recente qui, a Reggio Emilia, da due giovani artiste che si chiamano Giulia Zini e Laura Aurelio: alla prima si deve il disegno, gigantesco, di quasi due metri per tre; alla seconda – che per tutti è Lauretta – la campitura minuziosa delle ali, in una trama fittissima di segni e colori. «Mi piace pensare che la nostra sia una bottega rinascimentale, nella quale ciascuno presta la sua opera secondo le capacità proprie e le necessità comuni», spiega Luca Santiago Mora, fotografo e artista visivo, lettore di Simone Weil e Cristina Campo, ideatore e anima dell’Atelier dell’Errore, la realtà alla quale appartengono Giulia, Lauretta, Giorgia Ballabeni, l’altra Giulia che di cognome fa Gaiti e ancora Francesca, Matteo, Gianluca, Dieolhak, Lorenzo, Nico, Nuru, Francesco e Valentina.
Maggiorenni o poco più, sono entrati a far parte dell’Atelier negli anni scorsi su segnalazione del servizio di neuropsichiatria infantile della Ausl di Reggio Emilia. Ciascuno di loro è portatore di una disabilità più o meno accentuata, più o meno riconoscibile. C’è un dislivello tra il loro sguardo e il mondo come comunemente lo percepiamo. Ma a osservarli mentre disegnano accucciati per terra, nello spazio messo a disposizione dalla Collezione Maramotti nella storica sede di Max Mara lungo la via Emilia, viene da chiedersi se quel dislivello, quello scarto, non vada a loro vantaggio. «Vedono più in profondità, perché non hanno paura a tenere gli occhi aperti anche nelle zone più oscure, che noi di solito scegliamo di ignorare – afferma Santiago Mora –. Per questo le loro opere risultano così inquietanti, a volte addirittura spaventose. Io preferisco considerarle profetiche: mostrano qualcosa che ancora non conosciamo, ma che presto o tardi arriveremo a scoprire».
Animali, più che altro, come quelli catalogati e commentati nell’Atlante di zoologia profetica edito da Corraini a cura di Marco Belpoliti con i contributi di Luigi Zoja, Massimiliano Gioni, Gabriella Caramore, Ermanno Cavazzoni e di tanti altri che si sono lasciati appassionare e interrogare da questa esperienza unica e difficilmente classificabile. «Non è arteterapia e neppure Art Brut – precisa Santiago Mora –, non c’è nessuno che dall’esterno indirizzi o valuti. Gli artisti sono loro, i ragazzi e le ragazze, ognuno con il suo talento particolare. A me spetta solo il compito di trovare i materiali e gli strumenti più adatti. Anche fissando le regole, che sono molto semplici e uguali per tutti». Non si cambia foglio, per cominciare. Casomai se ne aggiungono, per ampliare l’opera. E non si cancella. Correggere è consentito, tornando con la matita su un dettaglio in modo da renderlo più aderente alle intenzioni dell’artista. Nel peggiore dei casi il lavoro può essere rifiutato e ceduto a qualcun altro, che provvederà a completarlo. «Sono i tre passaggi fondamentali – elenca Santiago Mora –: riconoscere le abilità, liberarle, metterle al servizio di un’impresa collettiva».
L’Atelier dell’Errore è nato nel 2002. Presso la Ausl reggiana era già attivo un laboratorio di attività espressive per minori con disabilità psichiatrica, ma la responsabile aveva preso un anno di aspettativa e Santiago Mora si era offerto di sostituirla, senza avere ben capito quale fosse esattamente l’impegno. «Perché non proviamo a disegnare?, ho detto un giorno – ricorda –. Uno dei ragazzi mi ha risposto di no, che lui non poteva disegnare. Mi è sembrata un’espressione tremenda, quel non potere, nella quale si stratificavano anni di critiche, di rifiuti, di irrisioni e di scarti. Ho pensato che, quando non si può, è allora che si deve. Abbiamo cominciato così». Prendere a soggetto il mondo animale è stata una scelta pressoché istintiva, rafforzata dall’apertura di un’altra sede dell’Atelier a Bergamo, negli ambienti del museo di Scienze naturali. Si sono sviluppate in questo modo la serie degli “animali custodi”, ai quali gli artisti consegnano i loro timori e il loro desiderio di giustizia (la protezione più invocata è quella contro i bulli), ma anche la fantasmagorica avventura delle “Cervie Eustachee”, creature ispirate alla leggenda di sant’Eustachio e protagoniste nel 2012 di un importante allestimento nella chiesa veneziana di San Stae. E qualche settimana fa, durante la festa della rivista online Doppiozero, l’Atelier ha presentato al Teatro Rasi di Ravenna, ex chiesa di Santa Chiara, una struggente Piccola liturgia con una sequenza di testi scritti dai ragazzi in una lingua aulica e plebea che ricorda le invenzioni di Giovanni Testori: Patrum lostres / che s’è le ciels / si santificatum l’om…
In questi quindici anni gli artisti dell’Atelier sono cresciuti, in tutti i sensi. Hanno esposto in Italia e all’estero, a Milano in occasione di Expo (la mostra si intitolava Uomini come cibo) e alla Moretti Gallery di Londra, dove le loro visioni abissali stavano a fianco a fianco dei dipinti di Andrea de Bartoli, Luca Signorelli e Carlo Dolci. I loro disegni si trovano sulle copertine dei libri della maceratese Quodlibet e all’interno di molte altre pubblicazioni, compresa quella relativa all’edizione 2015 di Euward, il maggior riconoscimento europeo destinato al rapporto fra arte e disabilità. Il premio è andato a Giulia Zini, ma alla cerimonia ha partecipato tutto l’Atelier, la bottega al gran completo nella sua versione Big. Sì, perché nel frattempo i ragazzi sono cresciuti anche d’età e allo scoccare dei diciotto anni i servizi di neuropsichiatria infantile non possono più occuparsi di loro. Insieme con la moglie Simonetta, a sua volta coinvolta nelle attività dell’Atelier, Santiago Mora ha cercato una soluzione e l’ha trovata grazie a Luigi Maramotti – attuale presidente di Max Mara e della collezione di arte contemporanea istituita dal padre Achille – e alla Fondazione Alta Mane Italia, che finanzia il progetto. Lo scopo è, anzitutto, quello di permettere alle ragazze e ai ragazzi di continuare a disegnare, esprimersi, ricercare, elaborando tecniche di incredibile efficacia, come quella escogitata da Dieolhak per il suo mirabolante Trapus Murtorus: la corazza della bestia è resa porosa da una serie di buchi realizzati utilizzando contemporaneamente due matite, una durissima che lascia il segno e l’altra, un po’ più morbida, che lo ribadisce con un leggero contorno. Il risultato è un carapace di favolosa consistenza, la corazza di una creatura di sogno che sia riuscita a varcare la soglia dell’invisibilità.
«Il vero obiettivo – avverte Santiago Mora – è che gli artisti ricevano un riconoscimento economico, che li renda almeno in parte autonomi». Fuori la giornata è grigia, scende una pioggia fuori stagione, ma le stanze dell’Atelier Big sono comunque luminose. Si lavora per portare a termine una commissione arrivata da Milano, ma il tempo per una pausa si trova lo stesso. Si passano in rassegna i disegni appesi alle pareti bianche, si rievocano episodi e si illustrano significati nascosti. È una specie di anteprima della giornata di domenica 7 maggio, quando per la prima volta le stanze della bottega si apriranno ai visitatori nell’ambito della manifestazione Fotografia Europea 2017. Non tutti gli artisti partecipano a questo vernissage improvvisato. Giorgia preferisce continuare a disegnare. Le riesce benissimo, come dimostrano le sue opere. Su una, in particolare, erano cadute due o tre lacrime. Quando se n’è accorta, lei ha lasciato che si asciugassero, dopo di che ha preso la matita ed è tornata su quelle minuscole macchie con un tratto leggero. Ci sono perle, adesso, al posto delle lacrime.
Avvenire

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