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Biennale Venezia. Padiglione vaticano: quello che c’è da sapere, dalla prenotazione alla visita

 
L'installazione di Sonia Gomes nella cappella del carcere femminile della Giudecca, tappa finale del Padiglione della Santa Sede alla 60a Biennale di Venezia - Ansa

Da oggi 20 Aprile è aperto al pubblico il Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia. Intitolato “Con i miei occhi” e curato da Bruno Racine e Chiara Parisi, è ambientato all’interno della Casa di reclusione femminile della Giudecca. Si tratta di un percorso unico e senza precedenti: le opere sono il frutto dell’incontro tra gli artisti e le ottanta detenute e la stessa visita è un incontro tra il pubblico avviene e le ospiti dell’istituto di pena.

Come si accede al Padiglione vaticano?
Proprio per la particolarità del contesto, la visita richiede di essere preparata in anticipo. Non è possibile presentarsi semplicemente davanti all’ingresso (all’indirizzo Fondamenta della Convertite 713, Giudecca) ma è necessario prenotarsi su una piattaforma web. Ogni giorno è previsto l’accesso di quattro gruppi di 25 persone, alle 11, alle 12, alle 15 alle 16. Il Padiglione vaticano è aperto tutti i giorni tranne il mercoledì, con una chiusura straordinaria domenica 28 aprile, in occasione della storica visita di papa Francesco, la prima di un pontefice in una Biennale. Non è possibile portare all’interno effetti personali e cellulari (di fatto è una vera e propria visita in carcere), che verranno riposti al momento della accettazione dentro cassette di sicurezza. L’esclusione dei cellulari, oltre a essere una questione “tecnica”, è anche provvidenziale. “Con i miei occhi” richiede una partecipazione totale e la disponibilità a condividere un’esperienza forte. L’assenza dello smartphone obbliga a una immersione con tutto il corpo. A guardare con i propri occhi, lasciando fuori dalla porta ogni giudizio e pregiudizio, per non riprenderlo più.

Come avviene la visita del Padiglione?
Si accede all’interno della Casa accompagnati dal personale penitenziario e si viene accolti da un gruppo di detenute, vestite con una divisa bianca e nera disegnata e realizzata da loro stesse nei laboratori del carcere. Saranno loro ad accompagnarci, restituendoci con i loro occhi l’esperienza dell’arte, le domande che suscita e il suo potenziale liberatorio. È importante sapere che è possibile, anzi auspicabile, dialogare con le guide ma è vietato fare loro domande sui motivi della loro reclusione. Proprio a motivo della relazione che si instaura tra visitatori e ospiti, ogni visita è destinata a essere unica: quello che leggerete qui sono le parole raccolte nelle visite dei giorni inaugurali.

Cosa accade durante il percorso?
La sola opera visibile dall’esterno è il grande dipinto di Maurizio Cattelan sul muro della cappella, la riproduzione della fotografia di due piedi sporchi e polverosi. È un’iconografia allusiva, che rimanda istintivamente al Compianto sul Cristo morto di Andrea Mantegna e ai piedi dei pellegrini di Caravaggio (o, perché no, ai piedi di Cristo lavati dalla Maddalena, la santa a cui è dedicata la cappella) ma l’artista non ha cercato una precisa corrispondenza, lasciando che l’opera risuoni in modo diverso in ognuno. Sono piedi che proiettano il corpo all’interno del carcere. Per una delle ospiti “i piedi, insieme al cuore, portano la stanchezza e il peso della vita”.

Il primo ambiente a cui si accede all’interno della Casa è la caffetteria, in cui sono esposte opere di Corita Kent, una suora americana che negli anni 60 e 70 realizzava esplosivi manifesti pop su temi sacri e contro la guerra e la violenza. Segue un lungo corridoio all’aperto con una serie di lastre di lava sulle quali l’artista Simone Fattal ha dipinto poesie e testi, brucianti, delle detenute: “I nostri sentimenti sono scritti qui – commentano a voce – un pezzo di noi è scritto su queste opere d'arte”.
Al termine del corridoio, fissato a una torretta di guardia, si trova la prima delle due opere del collettivo Clarie Fontaine. È un neon che rappresenta un grande occhio attraversato da una sbarra. Per la nostra guida simboleggia “le cose che non si vogliono vedere. Le persone preferiscono chiudere gli occhi, o peggio guardano, ma hanno una cecità dentro”.
Grosse chiavi di ottone aprono e chiudono pesanti porte blindate. Una stanzetta si apre sull’orto attraverso un finestra: “Guardate che bello – dice la nostra ospite mentre la spalanca – è la sola senza sbarre di questo luogo. Qui possiamo sognare altre cose; possiamo quasi dimenticare di essere in prigione”. Si arriva nel cortile dell’ora d’aria, dove campeggia un secondo neon di Claire Fontaine: “Siamo con voi nella notte”. È la ripresa di una scritta apparsa fuori dalle carceri italiane negli anni Settanta, in sostegno dei detenuti per ragioni politiche, ma portata all’interno ha una potenza inedita. “Di notte illumina tutto di blu, riempie le nostre celle”, osserva la nostra guida. Ma è anche un messaggio rivolto ai visitatori, una prospettiva ambivalente. Il carcere cessa di essere un mondo separato dal mondo.
Da un piccolo giardino con giochi per i bambini, allestito quando nel carcere c’era una sezione per detenute con figli, si accede alla saletta dove è proiettato il cortometraggio dell'artista Marco Perego e dell’attrice Zoë Saldaña, sua moglie. È il toccante racconto dell’ultimo giorno di una donna da detenuta, girato all’interno della Casa della Giudecca con la partecipazione delle ospiti, che così si mettono a nudo. La star di Hollywood osserva che il lavoro è stato concepito “non come un documentario ma abbiamo incoraggiato le detenute a fare un'opera d'arte con noi”. Questo è vero per tutto il percorso: “Il Padiglione della Santa Sede – sottolineano le donne che ci accompagnano – ci ha dato la possibilità di essere protagoniste e non solo spettatrici passive, di essere parte di qualcosa, anche se di temporaneo. Ci siamo messe in gioco e abbiamo vinto. Vincere significa sentirsi liberi, anche se per un istante”.

Siamo all’ultimo tratto del percorso. In una piccola stanza bianca troviamo appesi una serie di ritratti realizzati da Claire Tabouret a partire dalle foto delle detenute da bambine. Immagini serene, uguali a tante altre a noi famigliari, di vite che appaiono ancora tutte da scrivere. “Questa sono io con mia madre a 11 mesi – ci fa notare con la voce rotta una delle nostre guide – sono i miei primi passi”. Da lì si accede alla cappella. Un edificio quadrato, alto, dalla decorazione ottocentesca. Dal soffitto sono sospese sulle nostre teste le morbide e colorate sculture di Sonia Gomes. C’è chi farà poi notare che assomigliano alle corde di lenzuola per evadere. Nel gruppo c’è anche l’artista, che ha seguito per tutto il tempo in silenzio. Abbraccia le accompagnatrici e prende la parola: “È uno dei momenti più emozionanti della mia vita, un punto irripetibile della mia carriera. Mi sono resa conto grazie a questa installazione di quale sia il senso dell’arte. Queste sculture sono per ricordare alle donne qui residenti di guardare in alto”. Alziamo anche noi lo sguardo e l’occhio cade sopra l’iscrizione incisa sull’architrave di un coretto: REMITTUNTUR EI PECCATA MULTA QUONIAM DILEXIT MULTUM. I suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato.
Restiamo soli. Usciamo, dietro di noi si chiude l’ultima porta.

avvenire.it

Biennale Venezia. Padiglione vaticano: poesia calata nella realtà dell'afflizione

 

The Woman in the Wall è una miniserie piuttosto recente, ambientata nel contesto disagiato di un piccolo paese irlandese in cui una working class dimenticata fatica non solo a tenere il passo con la contemporaneità feroce del decentramento di risorse e opportunità ma anche a fare i conti con trascorsi il cui strascico ha raccolto di tutto dai fondali oscuri di omertà ataviche. L’immersione nella realtà delle Magdalene Laundries e il racconto impietoso di cosa succedeva alle madri rimaste incinte fuori dal matrimonio e separate immediatamente dopo il parto dai propri figli nelle Mother and Baby Homes, svuota di energie e speranza una rabbia indefinita di cui si è insieme protagonisti e oggetti, fardello condiviso da tutti in gradi di omissione a vario titolo.

Nell’isola di smeraldo alcuni istituti cattolici sottraevano i neonati a ragazze opportunamente catalogate come incapaci di assolvere ai doveri della maternità visti i comportamenti impuri che la avevano determinata, vittime perfette per una eviscerazione affettiva disumana che permetteva ai vari intermediari di affidare i piccoli presso famiglie disposte a generose donazioni, dopo averne dichiarato il decesso, in modo da coprire il traffico di adozioni alla comunità consenziente e alle madri biologiche che non sarebbero più state in grado di ritrovarli.

La straniante solitudine di chi si trovava a vivere la nascita di un figlio come un brutto sogno da cui ci si risvegliava senza trovarne più traccia è talmente sofferta da instillare in chi guarda il senso di una giustizia annegata nel sopruso che si serve strumentalmente della religione amministrandone il lato punitivo, il cui diritto, va detto, non appartiene a nessuno se non ai sadici e ai carnefici. Il dolore è così intenso da portare la interprete principale vicino alla pazzia, il Dio perso nel silenzio piegato agli interessi perfino imperscrutabili dei suoi rappresentanti protempore.

Quando ho compreso la impostazione del nuovo padiglione vaticano per la Biennale d’arte 2024, The Woman in the Wall è stata la prima immagine che mi è venuta in mente. Osservo con totale disincanto la relazione tra religione e arte contemporanea, cui credo profondamente ma non nei termini dell’asservimento ai diktat di moda nella società bene, quella che, per intenderci, stira sempre le pieghe e storicamente si è distinta per il suo rapporto privilegiato con Santa Madre Chiesa, tanto meno nell’adozione della forma didascalica di artigianati devozionali dichiaratamente commerciali che con la poesia, con la spinta autentica al cammino interiore non hanno nulla a che spartire, rivolti unicamente a reiterare piuttosto che interrogare, a bloccare invece che aprirsi alle dinamiche faticose del credere. Sono anche estremamente scettico riguardo la commistione tra cariche istituzionali e pratiche artistiche, troppo spesso soggetta all’utilizzo strumentale da parte di funzionari di ogni sorta intenti perlopiù ad esaltare le proprie velleità servendosi del potere proveniente da questo o quell’incarico.

Tutte ragioni per cui la notizia di un altro padiglione vaticano alla Biennale di Venezia sulle prime mi ha visto decisamente scettico, incentrato più che altro sui nomi dei partecipanti cui le riviste del settore fanno riferimento come bandierine segnaposto della qualità. Poi ho incrociato un paio di articoli che illustravano meglio il tutto. Il carcere femminile, le donne perdute, la esclusione dei device digitali in un evento inevitabilmente glamour che rinuncia così alla diffusione banale e amplificata a favore di selfie. Il taglio impresso a tutta l’operazione mi è apparso sorprendentemente nuovo. Tutte le mie perplessità sono crollate lasciando spazio ad una sensazione di fermento interiore difficile da descrivere.

L’evento pensato dal cardinale Tolentino con il suo ufficio è un atto di poesia autentica, scevro da retoriche che si dissolvono nell’odore acre e caratteristico del carcere, che, come per l’obitorio, conosce solo chi vi è stato personalmente, il più sacro degli incensi, calato nella realtà dura dell’isolamento e dell’afflizione, libero dalla melassa di salvezze apocrife a portata di portafoglio. L’amaro ostico che caratterizza il progetto per il carcere della Giudecca ha preso per mano la morte senza appello che mi era rimasta dentro con la storia delle lavanderie, aprendo ad una Chiesa la cui misericordia si rivolge prima di tutto verso se stessa, sigillata in un patto nuovo rivolto ai sofferenti con cui si confronta senza interposizioni e tra i quali deve sapere sbocciare e morire con spirito leggero, se necessario.

Per quanto mi riguarda il padiglione del Vaticano 2024 è come se l’avessi già visto, scritto in una intuizione di quelle sfidanti ed epocali e, anche se ho letto di come verranno prodotte le opere da un parterre di artisti che non ha bisogno di presentazioni, l’idea bypassa e supera nella sua stessa concezione ogni opera che ci si possa mettere dentro, è già ogni opera, è tutta l’intenzione, unico viatico dei cambiamenti autentici. Non me ne vogliano gli artisti prescelti che certamente saranno all’altezza del compito, ma questo padiglione potrebbe accogliere chiunque, un idraulico, un falegname, uno spazzino, ogni singolo artista, da quello di strada al più accademico, rivoluzionario, pedante e decorativo senza perdere una sola frazione del suo potenziale rivoluzionario: una Chiesa che esce dalla comfort zone delle mura elette e si immerge nelle fragranze non sempre gradevoli di una umanità che chiede disperatamente ascolto e vicinanza, una umanità che è l’unica ragione della Chiesa stessa.

Il primo atto del cardinale Tolentino alla Biennale trascende le contingenze estetiche inscritte nei confini di un quadro, di una composizione, di una performance, di una scultura, per rivolgere lo sguardo a monte, verso il mistero dove tutte le ragioni dell’estetica e di tutto il resto vengono comprese e assolte dal proprio limite, qualunque sia. La finezza e la forza dirompente e delicata di questa operazione dicono che per certo al dicastero della Cultura è arrivato un poeta autentico, e nessuno era più scettico di me al riguardo. La Biennale di Tolentino vale molto più delle scuse dei vari “taoiseach” (il primo ministro irlandese) proferite a profusione per tentare di rimediare in qualche modo alla realtà feroce delle Magdalene laundries e a tutto il resto. Rinnega l’idea stessa di umanità perduta, da sempre alibi per abusi impronunciabili, custoditi gelosamente nella pavidità complice di tutti.

Le ragazze scaraventate nell’inferno delle lavanderie irlandesi non avevano commesso crimini, colpevoli solo di essere rimate incinte, alla Giudecca è diverso, obietterà qualche contabile di santità improbabili. Non fa alcuna differenza, la novità è un gesto che riscatta la Chiesa stessa, gesto vivo, in fuga dal palazzo come dal sepolcro per risorgere tra coloro che la società marchia ultimi da sempre, che non può non ritrovare nella poesia la sua gemella diversa, l’affioramento, le sue membra, la novità sublima tutte le opere nell’unica opera in cui valga la pena perdersi e ritrovarsi. Il dado è tratto, un dado dalle sfaccettature infinite che gli impediranno di fermarsi, così almeno spero, nel suo rotolare di umanità decidua, nostra salvezza.

Avvenire

Venezia. Straniera e popolare, la Biennale guarda a Sud

 


Due sono i fili conduttori di questa nuova edizione della Biennale di Venezia dedicata all’arte: lo straniero e l’elemento popolare dell’arte. Dentro questi due “contenitori” semantici si trovano altri temi che rendono una nuova attualità a parole molto logorate dal tempo e dall’uso. Dentro straniero risuonano termini come diversità e differenza, ma anche intruso ed estraneo; e questioni che rientrano nel coloniale, vale a dire razzismo, discriminazione, risarcimento. Nel discorso popolare si trovano invece questioni che hanno una proiezione più culturale ed estetica: tradizione, modernità, idiomi e linguaggio, estetica e valori. Diceva Tolstoj che l’arte popolare deve avere all’origine, ma anche al punto di arrivo, un popolo. Baudelaire, nella Parigi che si vedeva come capitale della modernità, scrisse che l’arte si riconosce dal suo pubblico. Il popolo: come entità dotata di anima, lo troviamo ormai soltanto nei Paesi del Terzo e Quarto Mondo, dove ancora esiste una idea antica di comunità e resiste una tradizione antropologica peraltro assediata dalla famelicità del mercato globale. Il pubblico: è la bestia che viene provocata affinché s’ingozzi con tutto ciò che il sistema culturale produce ma, rispetto all’epoca di Baudelaire, si nutre in modo bulimico a causa della caduta di criteri di giudizio che hanno fatto del pop-kitsch la lingua delle società democratiche, dove è sempre più labile il gusto artistico. Non è un caso, allora, se oggi molti sono convinti che la critica d’arte è diventata superflua. Come nella democrazia, il numero ha sempre ragione sulla qualità, anche se con la possibilità di disastri.

Da diverse edizioni la Biennale cerca di far emergere le culture messe ai margini. Esiste una lunga storia dei “non dominanti” – che vennero anche definiti “minoranze” e che oggi paradossalmente trovano una loro centralità, persino sproporzionata talvolta – dove poteva accadere, come nell’edizione scorsa dedicata all’Architettura curata da Lesley Lokko, che l’Africa diventasse “laboratorio del futuro”. Lasciamo stare la questione dei nuovi diritti sociali, presenti quasi come un dato acquisito anche in questa nuova edizione, e consideriamo che nel titolo Stranieri ovunque scelto dal curatore brasiliano Adriano Pedrosa, si tenta una rivincita di quei popoli troppo a lungo penalizzati da un sistema dell’arte – che, in fondo, è stato quasi una forma di discriminazione coloniale attraverso il mercato -, al punto che la maggior parte degli artisti scelti dal direttore sono presenti con opere mai prima esposte in una Biennale e la clausola viene ripetuta sotto ogni cartellino che le identifica. Stranieri alla storia della Biennale, perché mai esposti prima, ma nuovi comunque per un immaginario fortemente popolare (che interseca storia sociale e politica, dissenso e diaspora: c’è anche una grande sala dove artisti italiani che hanno vissuto più o lunghe esperienze all’estero, vengono raccolti sotto il titolo “Italiani ovunque”). Esiste anche un “Nucleo storico” nella mostra come sempre divisa fra Arsenale e Palazzina dei Giardini, che partecipa per la prima volta alla Biennale e si tratta in genere di artisti vissuti nel Novecento, anche morti, e in questo modo si vuole risarcirli di una mancata attenzione al loro lavoro. Possiamo dire che questa edizione, più delle precedenti, ha una chiara impostazione antropologica, dove l’arte è il mezzo con cui gli artisti parlano di una storia che non è soltanto la loro, ma delle comunità e dei popoli, un idioma visivo spesso “popolare”: tra naïf e fantastico, tra primitivo e simbolico, tra racconto e immaginario sociale. Spesso si sente il peso delle dittature, dei regimi e dell’imperialismo, di una cultura della cittadinanza che se da un lato risente di arretratezze politiche e dall’altro conserva ancora costumi considerati preziosi per l’identità di quei popoli grazie alle tradizioni. Pedrosa, che dirige il Masp di San Paolo, creato da Pietro Maria Bardi quando venne via dall’Italia, ha una formazione che lo porta a dare molta importanza al messaggio, quindi alla comunicazione, rispetto all’emergenza formale e artistica. Nell’insieme vediamo opere di autori che rappresentano bene la loro provenienza dalle loro culture, che in molti casi scopriamo per la prima volta, e di cui possiamo dire, con il metro dell’arte, che pur essendo interessanti quasi mai spiccano per genialità. Quello che vediamo appartiene spesso e generalmente alla “creatività” e si radica in una storia quasi “estranea” all’Occidente.

avvenire.it

 

Biennale. Il Padiglione Vaticano a Venezia: l’arte intreccia cultura e società

 
Calle di ingresso, Padiglione della Santa Sede presso la casa di reclusione femminile Venezia-Giudecca - Marco Cremascoli, 2024

La visita di papa Francesco a Venezia del prossimo 28 aprile «sarà un momento storico». Infatti sarà il primo Pontefice a visitare la Biennale. E questo «dimostra chiaramente la volontà della Chiesa di consolidare un dialogo fecondo e ravvicinato con il mondo delle arti e della cultura». Lo ha ribadito con forza e argomenti il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’educazione, presentando ieri in sala stampa vaticana il Padiglione della Santa Sede alla prossima Biennale di Venezia, sul tema “Con i miei occhi”, visitabile dal 20 aprile al 24 novembre su appuntamento. «Non è un caso - ha fatto notare il porporato portoghese - che la Santa Sede abbia scelto di presentare il suo padiglione alla Biennale di Venezia – nell’anno in cui questa celebra la sua sessantesima edizione – in un luogo apparentemente inaspettato, come lo può essere il Carcere femminile dell’Isola della Giudecca».

E «non è certo un caso che il titolo del padiglione, “Con i miei occhi”, voglia focalizzare la nostra attenzione sull’importanza di come, responsabilmente, concepiamo, esprimiamo e costruiamo il nostro convivere sociale, culturale e spirituale». Infatti «viviamo in un’epoca, marcata dal predominio del digitale e dal trionfo delle tecnologie di comunicazione a distanza, che propongono uno sguardo umano sempre più differito e indiretto, correndo il rischio che esso rimanga distaccato dalla realtà stessa». Così la contemporaneità «preferisce metaforizzare lo sguardo», invece «vedere con i propri occhi conferisce alla visione uno statuto unico, poiché ci coinvolge direttamente nella realtà e ci rende non spettatori, ma testimoni».

Ed è proprio questo è ciò che «accomuna l’esperienza religiosa con l’esperienza artistica», difatti «nessuna delle due smette di valorizzare l’implicazione totale e anticonformista del soggetto». Il cardinale de Mendonça a questo proposito ha sottolineato che l’anno in cui la Biennale Arte celebra il suo sessantesimo anniversario segna anche i 60 anni dalla prima esibizione del film Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, proiettato per la prima volta a Venezia. E lo ha fatto con un richiamo alla consonanza tra i temi pasoliniani e il tema della misericordia, a partire dal capitolo 25 del Vangelo di Matteo, «uno dei testi biblici più commentati da Papa Francesco e che possiamo certamente associare alle linee portanti del Suo pontificato».

A questo proposito il porporato ha rimarcato che le opere di misericordia «non sono temi teorici», ma «testimonianze concrete», che «obbligano a rimboccarsi le maniche per alleviare la sofferenza». «A noi, dunque, - ha spiegato - è richiesto di rimanere vigili come sentinelle, perché non accada che, davanti alle povertà prodotte dalla cultura del benessere, lo sguardo dei cristiani si indebolisca e diventi incapace di mirare». E questo vale anche per gli artisti. Da qui la scelta del luogo che ospiterà il Padiglione vaticano. Luogo del tutto eccezionale e «apparentemente inaspettato»: il Carcere femminile dell’Isola della Giudecca. Idea nata dall’esigenza di tradurre nella pratica le parole del Papa, a partire soprattutto dal suo Discorso agli artisti, pronunciato il 23 giugno scorso nella Cappella Sistina, dove li invitava a non dimenticare i poveri, chi vive condizioni di vita durissime, che non hanno voce per farsi sentire e quindi invitandoli a «farvi interpreti del loro grido silenzioso». Tra questi i carcerati.

Nel corso della conferenza stampa il cardinale de Mendonça ha rivelato che quando ha mostrato a papa Francesco il progetto del padiglione, Francesco - prendendo spunto dal tema scelto - gli ha risposto: «Andrò anche io con i miei occhi». Il prefetto del Dicastero per la Cultura ha poi ringraziato le «autorità italiane per la loro indispensabile collaborazione», e «in particolare» il ministero della Giustizia nella persona del capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria nazionale, Giovanni Russo. Ringraziamento esteso ai curatori Bruno Racine e Chiara Parisi, «che formano una squadra straordinaria che, ne sono certo, elaborerà una proposta ispiratrice». Quindi il grazie a «coloro che stanno collaborando alla realizzazione del padiglione: COR architetti, e in particolare l’Architetto Roberto Cremascoli». E poi ha espresso gratitudine al «principale partner», la banca Intesa-San Paolo. Ed infine il grazie al Patriarcato di Venezia guidato da monsignor Francesco Moraglia, «con il quale intrattengo una stretta ed amichevole collaborazione». Alla conferenza stampa hanno partecipato Russo, i curatori Racine e Parisi, e Paolo Maria Vittorio Grandi, Chief Governance Officer di Intesa Sanpaolo.

«Il carcere è un luogo inaspettato, ma dove l’attesa è una condizione permanente», ha detto il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. «Il nostro compito – ha proseguito Russo descrivendo l’emozione provata alla notizia della visita di Francesco, primo papa a visitare la Biennale – è quello di aiutare i detenuti, in questo caso le detenute, a ricostruire il proprio vissuto dopo gli errori che, per svariate ragioni, sono stati compiuti nella loro vita precedente. Le detenute sono state chiamate non solo ad ospitare, ma anche a collaborare attivamente alla costruzione del Padiglione, e ciò ha avuto un importante ruolo riparativo, un modo per vivere in concreto la generosità, la solidarietà, e tutti quei valori che sono tipici del cristianesimo e che loro nella loro vita passata avevano per ragioni diverse calpestato».

Per Bruno Racine «trovare un luogo che sia già in sé un messaggio» è stata la prima sfida che si è dovuta raccogliere per il Padiglione della Santa Sede, allestito alla Giudecca che prima di essere un carcere è stato il Convento delle Convertite, e oggi è «il luogo simbolico di una proposta artistica, ma anche relazionale» tra artisti e detenute, a cui il visitatore potrà accedere lungo un percorso guidato dalle detenute stesse. E questa «sarà un’esperienza per gli artisti, le detenuti e i visitatori, che dovranno capire che attraversano un confine, in sintonia con il tema generale della Biennale, “Stranieri ovunque”». Da parte sua Chiara Parisi, che intervistiamo in questa pagina, ha parlato della «doppia creatività» degli artisti e delle detenute, che ha portato frutti come un docufilm girato nel carcere, a cui hanno partecipato una ventina di detenute, ed opere ispirate alle foto di famiglia delle recluse o a poesie scritte da loro.

Tra gli artisti che animano lo spazio della Biennale allestito dalla Santa Sede c’è anche Maurizio Cattelan, che 25 anni dopo la sua opera esposta sempre qui alla Biennale del 1999, dal titolo Mother, realizzerà un’altra opera ispirata alla figura materna. Nel 1999 l'opera di Cattelan La Nona Ora, provocatoria statua raffigurante Giovanni Paolo II colpito da un meteorite, aveva suscitato critiche e imbarazzi nel mondo cattolico. «Quella di Cattelan - ha spiegato Parisi - non è un arte provocatoria, lui lavora sui tabù, è molto malinconico e ha una diffidenza per cui mai accetta inviti e invece ha detto sì in modo spontaneo». «Una poetessa europea ha scritto che “l’iconoclasta ricostruisce l’icona”», ha commentato il cardinale de Mendonça. «A volte - ha precisato - interrogativi che possiamo in un primo momento giudicare come radicali sono modi di ricostruire la visione del sacro, e questo fa parte dell’incontro della Chiesa con il mondo artistico, le sue categorie, le sue logiche». Perché – ha puntualizzato – «non è che la Chiesa si aspetti che gli artisti siano cassa di risonanza immediata dei suoi valori e delle sue idee, un dialogo è polifonia, incontro nell’inatteso, ma un vero incontro».

Oltre a Cattelan gli altri artisti coinvolti sono Bintou Dembélé, Simone Fattal, Claire Fontaine, Sonia Gomes, Corita Kent, Marco Perego & Zoe Saldana, Claire Tabouret. Tranne Corita Kent, scomparsa nel 1986, tutti saranno a Venezia per curare e allestire le proprie opere. «Gli artisti sono toccati dall’estrema disponibilità di papa Francesco», ha testimoniato Parisi, precisando che sono ottanta le detenute che a titolo volontario collaborano con l’allestimento del Padiglione e fanno da guida ai visitatori. «Sicuramente si apriranno per loro molti benefici penitenziari», ha assicurato Russo, spiegando che la selezione delle detenute è stata fatta con la direzione del carcere e che si è registrata «una grandissima adesione, con alcune esclusioni solo per motivi sanitari o di sicurezza».

avvenire.it

Venezia, Leonessa firmata Mattotti celebra 90 anni della Mostra

 


Una Leonessa dalle linee classiche per celebrare i 90 anni della Mostra del cinema di Venezia (31 agosto - 10 settembre): è l'immagine del manifesto ufficiale firmata, per il quinto anno, da Lorenzo Mattotti, che è anche autore, per il quarto anno, della sigla del festival. E' "una Leonessa che si libra in alto e ci porge questo anniversario, il 90° - spiega Lorenzo Mattotti -. Sono 90 gli anni dalla prima edizione della Mostra e per questo abbiamo voluto che l'immagine avesse delle linee classiche, così come classica è stata la scelta del fondo oro. Il colore oro è anche un riferimento ai manifesti dei primi decenni del Novecento. La Mostra è sempre stata classica, ma anche provocatoria. Qui il Leone, simbolo di potere e forza, si è trasformato in una Leonessa, che ha in sé eleganza e creatività. Dopo 90 anni, il Leone di Venezia, simbolo della Mostra, è ora diventato una Leonessa che vola attraverso la storia con energia e leggerezza, simbolo di speranza, lontano dall'aggressività e dalla ferocia". (ANSA).

(segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale)

Le Muse inquiete, la Biennale tra arte e storia

 Le Muse inquiete, la Biennale tra arte e storia © ANSA

ansa

VENEZIA - Arti e Storia. In 125 anni di vita, fin dalla prima esposizione d'arte del 1895, La Biennale di Venezia non ha potuto sottrarsi a questo binomio. Un confronto, a seguire il percorso della mostra "Le Muse inquiete. La Biennale di fronte alla storia", al Padiglione centrale dei Giardini, fino all'8 dicembre, che si fa serrato, come oggi, in quel "secolo brevissimo" che va dagli anni '20, quando la mano e la volontà del fascismo si allungano sull'istituzione, ai grandi momenti della rinascita post-bellica, con la memorabile mostra d'arte del '48 (Picasso per la prima volta o la "scoperta" dell'arte statunitense grazie a Peggy Guggenheim), alle contestazioni del '68, all'irrompere della guerra fredda e della caduta del Muro di Berlino, fino agli anni '90 con gli albori della globalizzazione e il cambio di Statuto e il passaggio dell'ente a Fondazione. Spinta da uno di quei grandi eventi che cambiano la storia, la pandemia da Covid19 - come prima è successo con le guerre, i conflitti sociali, gli scontri generazionali e le profonde trasformazioni del '900 che "hanno premuto contro i confini dell'Istituzione veneziana" a dirla con Cecilia Alemani, coordinatrice del progetto e direttrice dell'esposizione d'arte slittata al 2022 - la Biennale ha voluto fare i conti con le sue vicende in rapporto alla società, alla politica, ai grandi eventi del mondo. Nel vastissimo materiale custodito all'Asac, l'archivio storico della Biennale - presto trasferito e ampliato negli spazi e negli - accessi - i direttori delle sei "muse" - Arte, Architettura, Cinema, Teatro, Musica e Danza - hanno scovato documenti, lettere, ritagli di giornale, quadri, registrazioni, video che, assieme a filmati rarissimi messi a disposizione dall'Istituto Luce, hanno dato vita all'esposizione, suddivisa in 12 sale. Una esposizione delle Biennali, del lavoro per realizzarle, della persone che le hanno guidate, delle censure del totalitarismo e delle libertà, del suo saper essere stata stata, nei due dopoguerra, a dirla con la curatrice, "faro di speranza nella rinascita civile dell'Italia e di molte altre nazioni". Più di mille documenti danno vita a "una mostra molto densa", spiega Cecilia Alemani, che ripercorre passo dopo passo, sotto titoli "chiave", "i momenti di crisi, di trasformazioni, di rivoluzioni, di introduzione di nuovi linguaggi artistici che, in una disciplina o nell'altra, hanno marcato la storia della Biennale". Ad accompagnare il visitatore, lungo il percorso allestito da Formafantasma, una utile pubblicazione che sopperisce di fatto alla quasi assenza di didascalie vicino al materiale esposto al fine di evitare "aggregazioni di persone" attorno a una bacheca o un tavolo. Ogni elemento, ogni raccolta di atti attorno a un singolo evento, a una "censura" o a uno "scandalo", anche mediatico, è motivo per aprire uno squarcio sul confronto-scontro tra arti e storia, per comprendere quel procedere per strappi e connessioni: dalla mostra del Cinema che dal '38 diventa strumento di propaganda fascista, alla causa di De Chirico contro la Biennale, al dipinto girato di Gastone Novelli e gli scontri in piazza del '68, alla protesta per il golpe in Cile nel '74 o la Biennale del Dissenso del '77 di Carlo Ripa di Meana; oppure, su fronti diversi lo scandalo per il dipinto del 1895 di Giacomo Grosso premiato e censurato dalla chiesa o le opere 'osè' di Jeff Koons con Ilona Staller. Tra le curiosità, ma drammatico segno dei tempi, la visita alla mostra d'arte di Hitler nel '34, con il suo rifiuto di un'opera di Seibezzi che gli viene offerta perché non gli sembra rappresenti bene Venezia, e il repentino cambio con un altro dipinto che ritrae delle barche. Da tutto traspare quell'inquietudine che attraversa le arti di fronte alla storia, "le muse inquiete" del titolo. perché, come dice il presidente della Biennale Roberto Cicutto, "l'inquietudine è il motore della ricerca che ha bisogno di confronto per verificare ipotesi e ha bisogno della storia per assorbire conoscenza".

Arte contro plastica a Venezia Twin bottles, messaggio antinquinamento sul Canal Grande

 © ANSA

VENEZIA - La metafora della plastica che soffoca il mare prende la forma di due enormi bottiglie d'acciaio inossidabile a pelo d' acqua sul Canal Grande. Una è lucida e strizzata come un rifiuto, sull' altra sono impresse foto che documentano l' inquinamento in ogni parte del mondo.
    Con "Twin Bottles" l' arte lancia da Venezia il messaggio contro la minaccia ambientale che mette a rischio le sorti del pianeta.
    L' installazione, davanti al Casinò, è opera dello scultore albanese Helidon Xhixha e del giovane fotografo svizzero Giacomo 'Jack', accomunati dalla passione per le immersioni subacquee. "In luoghi straordinari abbiamo trovato il mare malato e pieno di plastica - dice Xhixha - e abbiamo deciso di dare la nostra interpretazione artistica utilizzando l' immagine che viviamo ogni giorno di due bottiglie galleggianti alte quattro metri.
    La plastica diventa acciaio per un concetto unico: salviamo i mari del mondo". "Venezia è la citta dell' acqua e dell' arte - aggiunge Jack - quale luogo migliore per questo appello? E' importante far partire proprio da qui l' impegno per rendere il mondo più pulito. Il mare è la nostra vita".
    A sostenere il progetto è la Fondazione Braglia, che a Lugano promuove da tempo mostre d' arte ed è impegnata con Legambiente per salvare e proteggere cento tartarughe marine. "L' arte deve comunicare - spiega Riccardo Braglia, imprenditore farmaceutico - e allora il classico messaggio nella bottiglia di mio figlio Giacomo e dell' amico Helidon è il richiamo a eliminare la plastica dal mare per non ucciderlo, in un evento creato con Città di Venezia e la società Vela in concomitanza con la festa importantissima del Redentore". L' idea è portare le Twin Bottles - che resteranno davanti a Palazzo Ca' Vendramin Calergi ancora per qualche giorno, poi saranno ospitate all'Arsenale e torneranno sul Canal Grande a settembre per la Regata Storica - in tour nei prossimi mesi a Verona e Milano, puntando anche a Londra, e in alcuni laghi del nord Italia. L' assessore comunale al Bilancio Michele Zuin ha rimarcato che Venezia sostiene l'iniziativa che unisce arte e impegno per l'ambiente, condiderandola la prima tappa di un percorso legato a temi sui quali la città è molto sensibile. In linea con l'impegno ecologista, i due artisti hanno donato diecimila euro e adottato simbolicamente due tartarughe Caretta Caretta, pescate alcune settimane fa durante una battuta di pesca a strascico e liberate in mare nei giorni scorsi a Mattinata (Foggia) dopo le cure nel centro di recupero di Legambiente a Manfredonia. Dai controlli è risultato appunto che avevano ingerito oggetti di plastica. "I nostri operatori hanno documentato che più dell' 80 per cento degli esemplari assistiti nel centro - ha spiegato Stefano di Marco, coordinatore della campagna Tartalove di Legambiente - ha ingoiato questi materiali che possono provocare la morte per soffocamento o per blocco intestinale o, come nel caso di queste due tartarughe, seri problemi di galleggiamento". Helidon Xhixha, 47 anni di Durazzo, si è specializzato in sculture monumentali in acciaio. Il padre Sal era uno dei nomi di spicco della scena artistica albanese. Per la Biennale di Venezia del 2015, tra provocazione e impegno ambientalista per denunciare rischio di scioglimento dei ghiacciai, ha ideato un imponente Iceberg di acciaio. Giacomo Braglia, 23 anni di Lugano, vive a Londra e realizza le sue foto 3D utilizzando materiali diversi, gesso, alluminio, ferro e acciaio. Agli argomenti ambientali affianca la ricerca sulle questioni sociali, come l' immigrazione in Africa e Medio Oriente, documentata recentemente nei lavori esposti al Padiglione della Repubblica Araba Siriana alla 58? Biennale di Venezia. (Ansa).

Venezia. Apre la 58ª Biennale d'arte all'insegna del circo

«Mondo cane», installazione nel padiglione belga

Il presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta, parlando a un gruppo di giornalisti invitati per un light lunch, martedì scorso ha fatto un rapido bilancio su come sia cambiata negli anni la funzione di questa mostra, che è la più antica del genere sulla scena internazionale. Limitandosi anche solo al periodo dal Dopoguerra in poi, quando nel 1948 ebbe luogo la prima edizione seguita alla pausa imposta dal conflitto mondiale, Baratta ha così riassunto l’andamento a grandi linee: la Biennale non è più uno spazio nel quale si tengono contemporaneamente tante personali o monografiche riunite sotto lo stesso cappello espositivo. Il modello era quello delle Kunsthalle, ed era anche la formula sulla quale si basò proprio l’edizione del 1948, dove nel padiglione greco era ospitata la collezione di Peggy Guggenheim che portava con forza alla ribalta la pittura astratta, e poi si potevano vedere mostre antologiche dedicate a Klee, Chagall, Arturo Martini (scomparso l’anno precedente), Kokoschka, Rouault, Picasso, Braque, Moore, Wotruba, gli espressionisti tedeschi, gli impressionisti... e molte di queste rassegne avevano curatori d’eccezione, Longhi, Argan, Guttuso, Arcangeli, Read, Ernst... Alle personali erano poi subentrate negli anni monografiche su gruppi ed esperienze nuove. Ma oggi, ormai da varie edizioni, non è più così. Era evidente dalla lieve tensione compiaciuta delle labbra mentre parlava, che Baratta identifica questa svolta anche con se stesso, da quando cioè salì al comando nel 2008, dopo brevi esperienze precedenti.
È scomparsa, ha detto, anche la figura dell’artista come “attore sociale”; non più dunque un propagatore dell’arte come sintomo delle malattie del proprio tempo, o per così dire del riflusso concettuale in realtà diventato lingua internazionale del nichilismo ascetico, dell’arte-nirvana o, peggio, dell’arte indistinguibile dall’oggetto comune secondo il principio che chiunque è artista e qualsiasi cosa può essere arte. Oggi, pensa Baratta, viviamo in una scena dell’arte superaffollata, e il compito dell’artista è portare un cortocircuito nella capacità dello spettatore di digerire ciò che un tempo si chiamava opera d’arte ma ora è inevitabile definire piuttosto oggetto artistico. L’artista non è più chi usando tecniche e linguaggi codificati (sempre soggetti a essere decostruiti e ricostruiti con ordine diverso) ci pone davanti a un’opera che interpreta criticamente un canone e una storia, che si introduce in una continuità con le dissonanze tipiche di ogni atto libero e autonomo (l’élan vital bergsoniano, per intenderci); no, oggi l’artista è total free, nel senso di totalmente libero e totalmente gratuito, usa le materie e i materiali che vuole come gli pare e piace. Non conosce il limite, perché il limite è contrario all’idea di libertà che passa nel nostro tempo. Un’arte che chiunque può fare e che non richiede la conferma di un giudizio critico è piuttosto uno spazio nel quale si entra e si esce come semplici comparse di una giostra che colpisce lo spettatore con trovate, provocazioni, esagerazioni, pensieri buoni (o malefici)...
È anche il senso dell’ammonimento compreso nel titolo della Biennale d’arte che apre i battenti domani: May You Live In Interesting Times, che tu possa vivere in tempi interessanti. Il saggio cinese che usava questo monito non intendeva, come molti si augurano oggi, vivete sereni; in realtà, questo invito a vivere tempi interessanti per i cinesi vale piuttosto come una maledizione perché quell’augurio ha a che fare con la complessità, demone della nostra era postmoderna. Ma quando Baratta nella presentazione in catalogo gioca sul doppio registro maledizione/opportunità, ecco che mette in campo senza dirlo una regola base del capitalismo a cui l’arte di oggi deve quasi tutto anche quando, come sostiene il curatore di questa edizione, l’americano Ralph Rugoff, cerca di essere il balsamo di una storia segnata dal colonialismo.
Se quella maledizione è ricaduta su di noi, come disse un diplomatico britannico, oggi è evidente che continua ad agire in un sistema dell’arte gravemente menomato e tenuto in pugno dal potere economico-culturale: Mercato-Musei-Case d’asta-Galleristi-Curatori. Ed è bene ribadire che i curatori non sono affatto necessariamente critici, sono manager che inventano contesti e messinscene di idee e concetti capaci di dare un retroterra a ciò che spesso sale alla ribalta solo per la determinazione (sostenuta dal denaro) di alcuni influenti personaggi. Oggi, per esempio, l’arte internazionale è dominata da una oligarchia, di cui fanno parte sul piano collezionistico-mercantilistico figure come Pinault e Gagosian.
Qual è il punto debole del sistema dell’arte? Senza dubbio la fine della critica d’arte. Senza la critica d’arte, manifestazioni come la Biennale diventano lunapark o teatri circensi. Si veda – come emblema – l’allestimento Mondo cane di Jos de Gruyter & Harald Thys nel padiglione belga che è un teatrino di finti vecchi automi: suonatori ciabattini arrotini e filatrici ma anche nuovi Frankenstein. Si ride anche, ma è appunto l’emblema di un baraccone dove ogni scelta ideale e artistica convive con l’altra annullandone il potenziale critico e la forza estetica. L’Arsenale presenta anche opere degne di nota e la cura impressa da Rugoff alla mostra è pulita, in parte richiama con minor forza evocativa l’allestimento della Biennale di Gioni. Si segnalano le installazioni di Alexandra Birken con tante figure umane nere (ombre?) afflosciate su scale e travi, ilMicroworld di Liu Wei con lastre di acciaio composte in un conflitto di vuoti e di pieni dentro una grande stanza, le tristi fotografie di Soham Gupta (non a caso intitolate Angst), e quelle ad altissima definizione di Anthony Hernandez su mondi fatiscenti e discariche e materie povere; e ancora: le grandi ruote da autocarro rivestite di catene e sospese a mezz’aria di Arthur Jafa, che mostrano come la scultura possa essere anche lontana dai canoni soliti (anche quelli poveristici appunto)... Sono emergenze che non indicano però nuove strade, un comune sentire, altri scenari dove leggere il futuro. Forse la maggior coagulazione nel modo di vedere viene dai Paesi asiatici, e questo testimonia semmai come il dominio del mercato americano sia messo a dura prova anche nell’arte dal mondo cinese, indiano e giapponese.
Penso che con questa Biennale dovrebbe chiudersi un ciclo, che ha assecondato la dittatura dello spettatore cioè ne ha accarezzato gli istinti consumistici e ludici ma senza scavare nelle contraddizioni del nostro tempo anche prefigurando un dissonante ritorno alle forme e alla capacità tecnica di ordinarle. Al contrario di quel che pensa Baratta, se questa Biennale è diventata il modello per altre manifestazioni analoghe (ma non Documenta, per esempio), forse è il momento di fare scelte diverse e tornare al passato, a una Biennale-Kunsthalle dove il modello espositivo riviva in forme nuove. Del resto, Baratta sa bene che questa formula non è mai tramontata, si è soltanto dislocata su tutta Venezia, in una sinergia con altre istituzioni che aiuta la Biennale a fare risultato. In questi giorni si sono aperte in Laguna mostre di Burri, Baselitz, Scully, Forg, Kounellis, Immendorf, Gorky, Halley... Ridefinendo il modello, si deve tornare e riconoscere un ruolo centrale alla critica.
Avvenire

Peggy Guggenheim, mostra-omaggio del '48

 © ANSA

VENEZIA - Apre da oggi al pubblico a Venezia la mostra-omaggio per il 70/o anniversario dell'esposizione della collezione di Peggy Guggenheim alla XXIV Biennale di Venezia, nel padiglione greco, evento dirompente nella storia dell'arte del XX secolo, prima esposizione pubblica di una collezione privata di arte moderna in Italia, dopo 20 anni di regime dittatoriale. L'esposizione, allestita nelle project rooms del museo sul Canal Grande si intitola "1948: la Biennale di Peggy Guggenheim", è curata da Gražina Subelytė. Sarà aperta fino al 25 novembre. "1948: la Biennale di Peggy Guggenheim" mira a ricreare l'ambiente del padiglione attraverso documenti, fotografie, lettere e una maquette che per la prima volta ne ricostruisce spazi e allestimento originario del '48, seguito dall'architetto veneziano Carlo Scarpa, che collaborò con la Biennale dal 1948 al 1972. Non mancano alcune delle opere allora in mostra, oggi parte della Collezione, insieme ad altre in seguito donate. (ANSA).

Biennale dei Capolavori, per la sua 30ma edizione, apre al Novecento più recente

Aprirà il 23 settembre l’edizione del trentennale della Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze, ospitata nella tradizionale sede di Palazzo Corsini, sul Lungarno fiorentino dove giungeranno quasi 3.000 opere, proposte da oltre 80 gallerie provenienti dall'Italia e dall'Europa.
La stessa sede, Palazzo Corsini, si presenterà “a nuovo”, con un allestimento originale che quest’anno è affidato a Matteo Corvino, noto interior designer e scenografo veneziano. “Il nuovo allestimento della Biennale sarà un mix di modernità ed eleganza – spiega Fabrizio Moretti, Segretario Generale della BIAF -  dopo lo straordinario lavoro di Pier Luigi Pizzi si è scelto di continuare il suo percorso con Matteo Corvino, che riuscirà, con il suo tocco magico, a rendere ancora più speciale uno dei palazzi più belli del mondo, Palazzo Corsini”.
Nei saloni barocchi i visitatori saranno accolti dall'inedito allestimento con  opere selezionatissime (e visionate da un’autorevole Commissione Scientifica internazionale - il cosidetto Vetting Commitee) che, da questa edizione, arriveranno sino alla fine degli anni Ottanta.
Queste sono le prime anticipazioni di una Biennale per cui si respira un clima di attesa che non si viveva da almeno un decennio.
ansa

Apre Biennale Architettura, 65 paesi

 Con la presenza di 65 Paesi, di cui cinque presenti per la prima volta, è stata aperta la tre giorni di vernice della Biennale d'Architettura di Venezia. "Reporting from the front", questo il titolo della 15/a edizione della mostra, è diretta da Alejandro Aravena e organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta. La rassegna, che sarà aperta al pubblico da sabato 28 maggio a domenica 27 novembre 2016, ai Giardini e all'Arsenale di Venezia, vede la partecipazione di new entry come Filippine, Lituania, Nigeria, Seychelles e Yemen. Il Padiglione Italia alle Tese delle Vergini in Arsenale, sostenuto e promosso dal Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo, è stato affidato al team TaMassociati composto da Massimo Lepore, Raul Pantaleo, Simone Sfriso.
ansa

La Biennale sbarca on line con Google Cultural Institute. Grazie a partnership visitabile da oggi e anche dopo la chiusura

di Cinzia Conti

Guardare una delle oltre 4.000 opere esposte alla Biennale, scrutare le aree espositive interne ed esterne dei Giardini e dell'Arsenale, poi discuterne con amici e conoscenti e creare gallerie personalizzate da mostrare agli altri. Tutto questo non dalla Laguna ma sdraiati nella propria poltrona, oppure viaggiando o ancora passeggiando per strada da proprio cellulare. Ed essere assaliti non dall'intenzione di "saltare" la visita a Venezia ma piuttosto di organizzare un bel viaggio per vederla dal vivo, dopo esserne stati folgorati via web. Accade da oggi grazie alla partnership tra la Biennale e il Google Cultural Institute che mette on line che la mostra internazionale e le mostre di 80 Paesi in 70 padiglioni nazionali.

Su g.co/biennalearte2015 e www.labiennale.org/it/arte/esposizione2015-online/ e grazie anche ad un'app per dispositivi mobili scaricabile da Google Play sarà possibile sfogliare le opere esposte, fare tour virtuali attraverso Google Cardboard, visitare le sale grazie a più di 80 immagini Street View.

"E' un'operazione che consente di tenere viva la Biennale - dice il ministro Dario Franceschini alla presentazione del progetto presso il Mibact del progetto - anche quando è finita e questo finora non era mai capitato, se non all'interno delle pagine di un catalogo. La Biennale è un eccellenza non solo nella storia ma anche nell'innovazione". Franceschini aggiunge: "Quest'operazione consente di capire se questo tipo di collaborazioni moltiplicano, come io credo, i visitatori o invece rallentano, come sostiene qualcuno, il numero degli accessi. Ma io sono convinto che l'arte si apprezza e la si vede direttamente e io penso che anche quelle offerte dal web siano tutte occasioni per far venire la voglia di organizzare un viaggio".

"Quest'accordo che realizziamo con Google - dice il presidente Paolo Baratta - è un primo esperimento importante, e credo che possa avere sviluppi futuri per alcuni aspetti ancora imprevedibili. L'intera mostra sarà on line in modo gratuito. Non è l'accordo tra il diavolo e l'acqua santa, perché la minaccia della tecnologia diventa un'opportunità se non si è ospiti ma partner".

"Abbiamo digitalizzato - dice Amit Sood, direttore del Google Cultural Institute - non solo le bellissime storie della Biennale ma anche gli spazi per renderle accessibili a tutti e democratizzarle. Ma questo ovviamente non sostituirà certo il godimento della visita fisica alla mostra. Lavorando con il Google Institute con oltre 60 Paesi posso dirvi che l'Italia non è troppo indietro rispetto alle nuove tecnologie e soprattutto si respira una nuova energia e una spinta a livello di istituzioni culturali negli ultimi 6-8 mesi. C'è voglia di impegnarsi, fare qualcosa e correre rischi e di accogliere quello che è il nuovo ed è per questo che abbiamo deciso di concentrare le nostre risorse".
ansa