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Al via TourismA, tra gli ospiti Angela, Cardini e Guccini

 

Incontri, centinaia di relatori, laboratori didattici, lezioni di geroglifico, mostre, premi internazionali, virtual tour e l’evento finale con Alberto Angela. E’ quanto propone la X edizione di Tourisma – Salone archeologia e turismo culturale organizzato al Palazzo dei Congressi di Firenze dal 23 al 25 febbraio dalla rivista Archeologia Viva. Si tratta di tre giornate a ingresso libero e gratuito per parlare di archeologia, ambiente e turismo culturale. Tra gli ospiti il giornalista Aldo Cazzullo, il critico d’arte Vittorio Sgarbi, il filologo Luciano Canfora, il geologo Mario Tozzi, il medievista Franco Cardini e il cantautore Francesco Guccini.

Tra i focus in programma quello dedicato ai ritrovamenti fatti durante i lavori di costruzione del Viola park a Bagno a Ripoli (Firenze) e la presentazione del report sul Turismo Culturale 2023, condotto da The data appeal company – gruppo Almawave che verrà presentato al convegno ‘Fare turismo culturale oggi. Analisi attraverso i dati e l’Intelligenza artificiale’. L’analisi delle tracce digitali pubblicate online da gennaio a dicembre 2023, è stato anticipato, mostra che oltre il 35% del totale è stata pubblicata dagli italiani, anche se in netto calo rispetto all’anno 2022. Gli americani sono i visitatori che hanno espresso opinioni più positive sui siti italiani.

Tra gli itinerari più battuti, Roma domina la classifica delle 10 maggiori attrazioni, con cinque siti, segue Venezia con tre, poi Verona, Firenze e Caserta. Il Colosseo stacca le altre mete con oltre 84.000 recensioni, ma piazza Duomo a Firenze conquista il primato di attrazione culturale più apprezzata. Sarà sempre Tourisma, infine, a ospitare la seconda edizione del premio Gist Acta, dedicato al turismo archeologico e culturale. Per Piero Pruneti, direttore di Archeologia Viva “dieci anni sono un grande traguardo. La manifestazione è diventata punto di riferimento per gli operatori turistici alla ricerca di sempre nuove proposte in arrivo dal mondo dell’archeologia e del patrimonio ambientale”.

travelnostop.com

Francesco Guccini, il 10 novembre esce Canzoni da Osteria

Francesco Guccini ci accompagna ancora una volta tra le sue melodie del cuore e le immagini evocative dei suoi ricordi con Canzoni da Osteria, il nuovo progetto discografico del Maestro del cantautorato italiano in uscita il 10 novembre per BMG.
    Naturale prosecuzione di Canzoni da intorto, certificato Disco di Platino, vincitore della Targa Tenco per la categoria Interprete di canzoni e album fisico più venduto del 2022 che ha segnato il ritorno a cantare di Francesco Guccini a 10 anni di distanza dall'ultimo progetto in studio - Canzoni da Osteria è una raccolta di canti popolari selezionati dal Maestro, rivisitati in chiave strettamente personale, per un suggestivo viaggio tra culture e tradizioni nascoste, veri e propri gioielli del repertorio nazionale e internazionale.

Gli arrangiamenti sono di Fabio Ilacqua che ne ha seguito anche la produzione artistica affiancato da Stefano Giungato.
    CANZONI DA OSTERIA è disponibile in 5 diversi formati: CD, CD limited edition - maxi formato, vinile, vinile special edition (edizione limitata numerata e colorata), e per i veri intenditori uno speciale doppio vinile edizione esclusiva con tracce strumentali - incisione diretta dai mix (edizione limitata e numerata).

ansa.it

Musica. Francesco Guccini, la locomotiva sbuffa ancora

 Dieci anni dopo l’addio, l’82enne cantautore pubblica a sorpresa "Canzoni da intorto", solo in formato fisico: «Ignoro cosa sia lo streaming, ho scelto canzoni di perdenti e un inno ucraino»


L'82enne cantautore Francesco Guccini: da oggi nei negozi il suo nuovo disco “Canzoni da intorto”

Disco d’amore e d’anarchia. Forse i due principali sentimenti che hanno spinto l’82enne (e mezzo, precisa lui) Francesco Guccini a ridiscendere in campo dieci anni dopo il triplice fischio finale de L’ultima Thule con cui aveva detto addio al mestiere di cantautore. “Non sono più capace a scrivere canzoni, non mi riesce e non ho più nemmeno toccato la chitarra e senza strumento non riesco a comporre” torna a precisare. Una pietra tombale che fa ripiombare su di sé presentando l’inimmaginabile sorpresa di fine anno, un suo nuovo disco, Canzoni da intorto. Undici tracce, più una fantasma, che attingono al patrimonio popolare e socio-politico di un’Italia contadina, proletaria e un poco anarchica. Canzoni della tradizione e d’autore, cantate anche in diversi dialetti. “Da modenese ho un dialetto affine al milanese – spiega riferendosi a brani come Ma mi, El me gatt e Sei minuti all’alba di Enzo Jannacci -, ma ho cantato anche in piemontese con Barun litrun e mi dicono che me la sono cavata anche con il rovigotto di Tera e aqua. Ho evitato le canzoni francesi perché non lo so pronunciare bene e quelle tedesche perché il tedesco lo ignoro”.

Una “folle operazione”, la definisce il Maestrone, che soltanto lui poteva permettersi nel 2022, oltretutto scegliendo il solo supporto fisico e rinunciando alla vendita attraverso le piattaforme digitali (“ignoro cosa sia lo streaming” ha detto Guccini suscitando compiaciuta ilarità in conferenza stampa). A sostenerlo il produttore Fabio Ilacqua, che ha curato tutti gli arrangiamenti, e l’etichetta Bmg con l’idea che questo particolare disco vada ascoltato dall’inizio alla fine, “ma anche con la convinzione che la qualità non si possa misurare in visualizzazioni”, spiega il managing director Dino Steward la scelta di evitare la distribuzione sulle piattaforme, “per ragioni artistiche e commerciali”.

Un progetto nato tanti anni fa, svela Guccini, con l’idea “di fare un disco di cover ma il mio produttore e amico Renzo Fantini era dubbioso. Comunque ai tempi avrei scelto altre canzoni, per esempio Come è profondo il mare di Dalla o Luci a San Siro di Vecchioni”. Ora invece ci sono le canzoni “che ho cantato con gli amici e le amiche in tantissime serate a Bologna passate a giocare a carte, dalla briscola al tressette al tarocco, senza mai giocarsi neanche un caffè”. E l’intorto del titolo? L’idea è stata della compagna Raffaella, venuta fuori durante un pranzo di lavoro con i discografici e subito piaciuta. “L’intorto nasce dal fatto che sono canzoni che nessuno conosceva, canzoni marginali che fai bella figura a spiegare, per esempio, a una ragazza. Questo è l’intorto, far vedere che sei un fighetto”.

Ad aprire il disco una ritmata versione quasi da balera de I morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei, scritta per ricordare i cinque uccisi dalla polizia durante una manifestazione sindacale il 7 luglio 1960. Poi brani anarchici come Addio a Lugano e Nel fosco fin del secolo quando “dal sangue spunterà la nuova istoria de l’Anarchia” e canzoni meneghine come la macabra e surreale El me gatt di Ivan Della Mea, Ma mi di Fiorenzo Carpi e Giorgio Strehler (cavallo di battaglia di Ornella Vanoni) e Sei minuti all’alba. E ancora Tera e aqua e il traditional inglese Green Sleeves che, racconta Guccini nel booklet, mezzo secolo fa era stata adottata come sigla di un programma della domenica mattina del primo canale nazionale, A come agricoltura, e lui ne era stato affascinato al pari della storia che ne attribuiva la paternità a Enrico VIII, dedicata alla moglie Anna Bolena che poi fece decapitare per averlo tradito.

Sfoggiando uno spesso maglione rosso, Guccini non può certo sottrarsi, davanti alla platea di giornalisti invitati per la presentazione alla milanese Bocciofila Martesana, alla sottolineatura di come questo anacronistico disco, commercialmente quasi improponibile, sbocci in un momento storico in cui al governo siede una parte politica che sembra l’ideale bersaglio di molte delle dodici canzoni presenti. “Per quanto riguarda la congerie politica attuale quando abbiamo fatto il disco non si sapeva, ma si intuiva – sottolinea - e mi fa piacere che alla fine le canzoni che ho scelto siano di un certo tipo. In questo disco ci sono tutte canzoni di perdenti, di chi al potere si oppone e lo combatte. C’è ancora quel mio spirito di ragazzo quando in classe ci si divideva tra chi teneva per i greci e chi per i troiani. Io tifo ancora oggi per i troiani”.

Tra perdenti e aspiranti vincenti, riferendosi a un altro brano di Carpi e Strehler, Quella cosa in Lombardia, Guccini risponde a una domanda sulle prossime elezioni regionali in Lombardia e dice: “Fa bene il Pd, o quello che ne resta, a non appoggiare” Letizia Moratti, mentre sul nuovo governo e su Fratelli d’Italia, che nel simbolo conserva la fiamma, sbotta: “Non mi piace che ci sia la fiamma, quella che ardeva a arde ancora sulla tomba di Mussolini. Ma pare che gli italiani siano contenti. Staremo a vedere. Come diceva mia nonna, ci vuole pazienza, e tanta”. Nel mirino dell’ex “simpatizzante anarchico" Guccini ("ma essere anarchici oggi sarebbe un po’ come arrampicarsi sugli specchi”), autore de La locomotiva simbolo di una sbuffante anarchia pronta allo scontro frontale con il potere costituito, ci sono ancora e sempre tutti i fascismi e gli stalinismi anche se, racconta, in virtù della sua onnivora curiosità e passione, un tempo ha cantato anche lui canzoni fasciste.

“La mia conoscenza di canti e canzoni spazia da destra a manca - spiega il Maestrone -, ma per una ragione personale preferisco manca. Anche se, contrariamente a quanto si è sempre pensato della mia collocazione politica, non sono mai stato comunista, non ho mai sostenuto il Pci, a differenza per esempio di De Gregori. Semmai dico la mia parte politica non in maniera violenta o sbandierata”. Quindi una stoccata a Mogol con i suoi testi innocui e soprattutto a Maurizio Vandelli che, quando Guccini a metà anni Sessanta non era ancora iscritto alla Siae e le sue prime canzoni oltre che ai Nomadi le faceva eseguire all’Equipe 84, “non mi ha mai dato una lira”.

Erano i tempi della guerra del Vietnam e della guerra fredda, con l’incombente pericolo di una nuova atomica dopo quelle follemente lanciate vent’anni prima su Hiroshima e Nagasaki, quando Guccini scrisse Noi non ci saremo portata al successo dalla voce di Augusto Daolio. Ed è così che ora il re dei nostri cantautori ha deciso di chiudere il suo ultimo disco con un inno alla Ucraina che sotto le bombe russe sta vivendo dal 24 febbraio, con l’Europa e il mondo costretti a tenere il fiato sospeso con le minacce nucleari all’orizzonte. Fantasmi che aleggiano sull’umanità e speranze che echeggiano nella traccia fantasma che contiene Sluga Naroda, sigla della serie di Zelensky Servitore del popolo, che Guccini canta in ucraino concludendo con il saluto nazionale Slava Ukraini. Sperando che questo brano possa essere l’unico non perdente del suo ultimo disco.

da Avvenire

(segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale)

Barcellona: Musica, al Centre Artesà Tradicionarius si celebra Francesco Guccini


Metti una sera a discutere intorno a un tavolo quattro personaggi d’eccezione come il cantautore e scrittore Francesco Guccini; Carlo Petrini, l’agnostico cui Papa Francesco ha chiesto la prefazione per l’enciclica “Laudato si’”, fondatore di Slow Food , Terra Madre, dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, del Salone del Gusto di Torino; Sergio Staino, disegnatore satirico, scrittore, regista cinematografico creatore del personaggio di Bobo; Guido De Maria, storico pubblicitario italiano, disegnatore, autore televisivo e condirettore della rivista Comix.
“Il nuovo che avanza. Omaggio a Francesco Guccini”
L’evento – dal titolo “Il nuovo che avanza. Omaggio a Francesco Guccini” – è in programma sabato 13 febbraio alle 21 a Barcellona, presso il Centre Artesà Tradicionarius, con la collaborazione dell’Istituto italiano di cultura della città catalana. Oltre all’incontro, è previsto un omaggio musicale internazionale in cui cantautori di varie nazionalità cantano canzoni di Guccini tradotte nelle proprie lingue. Sul palco del Tradicionarius si esibiranno i catalani Quico Pi de la Serra, Roger Mas, Sílvia Comes, Rusó Sala e Miquel Pujadó, la neozelandese Tamar McLeod Sinclair, la maltese TroffaHamra e l’argentino Juan Carlos “Flaco” Biondini
fonte: http://www.liberoreporter.it/

Guccini racconta il suo percorso umano, oltre che musicale, e guarda al futuro che ci attende

di BRUNETTO SALVARANI
Si intitola L’ultima Thule ed è il disco finale della carriera di uno dei più grandi cantautori-poeti d’Italia. In questa lunga chiacchierata, Guccini racconta il suo percorso umano, oltre che musicale, e guarda al futuro che ci attende.
Francesco Guccini durante il concerto in onore di Demetrio Stratos il 14 giugno 1979 all’Arena di Milano.
Francesco Guccini durante il concerto in onore di Demetrio Stratos il 14 giugno 1979 all’Arena di Milano. OLYCOM
La notte pavanese che lui canta nell’ultimo disco è ancora di là dal sopraggiungere quando, oltrepassato il Ponte della Venturina e lasciato alle spalle l’estremo lembo appenninico di terra emiliana, tocchiamo finalmente Pàvana. Non è la prima volta che, con un paio di amici, vengo a trovare Francesco Guccini: per incontrarlo, chiedergli come sta e ringraziarlo una volta di più per quello che è, e per come è. Si tratta di un piacevole rituale, «un pellegrinaggio», scherziamo fra noi affrontando la salita conclusiva, che ogni volta conferma nella sensazione di trovarsi di fronte a una persona autentica, semplice di un’antica cortesia; certo non a un divo, ma a un uomo capace di dubbi e perplessità, capitato per sbaglio in un Paese tutto diverso, che non c’entra niente con lui. Nonostante la sua popolarità, addirittura in crescendo dopo il grande successo dei suoi lavori più recenti: il volume di memorie Dizionario delle cose perdute, che per parecchie settimane nel 2012 è stato tra i più venduti in Italia, e L’ultima Thule, l’album con cui ha scelto di congedarsi dalla scena della musica, uscito alla fine dello scorso novembre e diventato in breve disco di platino. Che abbiamo ascoltato, senza timore di risultare retorici, non solo con ovvia curiosità, ma anche e soprattutto con sincero affetto. Perchè siamo cresciuti con lui.
il cantautore in una immagine recente, davanti alla sua casa di Pàvana, sull’Appennino tosco-emiliano.
Il cantautore in una immagine recente, davanti alla sua casa di Pàvana, sull’Appennino tosco-emiliano. FRANCESCO CONVERSANO
L’abbiamo sempre considerato il fratello maggiore che non abbiamo avuto, l’amico saggio cui confidare qualcosa di davvero segreto, il cantautore famoso ma in grado di resistere al fascino perverso dello star-system (abbiamo appreso solo dopo, un po’ per naturale coerenza e il resto per naturale pigrizia e naturale timidezza). Così, le sue dichiarazioni sul fatto che si sarebbe trattato della sua definitiva fatica artistica in campo musicale ha, inevitabilmente, aumentato il tasso di commozione. Perchè il sapore di tramonto di una lunga stagione che si porta dietro è – ammettiamolo – qualcosa che ci riguarda da vicino. La chiusura di un’esperienza intergenerazionale e condivisa con tanti, eppure da custodire gelosamente, e l’esaurirsi di un tempo che si apre su un altro non necessariamente peggiore, nella consapevolezza che le cose umane sono segnate dalla loro evanescenza. Ed eccolo qui, il Maestrone, ben piantato nella sua barba candida, i suoi 73 anni non celati e la sua tana appenninica avvolta di libri e di ricordi.
Il batterista Ellade Bandini
Il batterista Ellade Bandini.
FRANCESCO CONVERSANO
 
Dove si lamenta da subito di essersi deciso a tornare troppo tardi, quando già da tempo Bologna non la sentiva più sua; e dove comunque ha rimesso radici da oltre un decennio, accompagnato amorevolmente dalla moglie Raffaella, che insegna Lettere in una scuola media qui vicino, con la quale ha risistemato questa casa avita. Accompagnati da un buon bicchiere di vin santo – in onore del sottoscritto, ci tiene a precisare – si comincia a ragionare de L’ultima Thule. «Sì, ci siamo divertiti a registrarlo, stando qui, insieme con i musici – come li chiamo io da sempre – per un mese intero, e non in un asettico studio di registrazione cittadino. Come si può notare dalle riprese de La mia Thule, il documentario girato nell’occasione ». Che è andato anche in onda sulla Rai, e in cui si può constatare la straordinaria operazione che ha trasformato magicamente l’antico mulino del bisnonno Chicon – oggi un bed and breakfast gestito dai cugini del Nostro – in una sala discografica dotata di ogni genere di conforto. La cornice più giusta per un album impregnato di memorie, tra gioia e nostalgia, e di celebrazioni di quel che resta di antiche speranze. Come capita di regola ai vecchi, vi affiorano soprattutto le cose più lontane, che appaiono come le più forti e le più vere, avendolo accompagnato una vita intera.
il bassista Pierluigi Mingotti.
Roberto Manuzzi alla fisarmonica.
FRANCESCO CONVERSANO
 
Ha voluto con sè, ovvio, al modo dei marinai che si accodarono baldanzosi a Ulisse nel suo estremo folle volo, i soliti compagni: Ellade Bandini, Juan Carlos Flaco Biondini, Roberto Manuzzi, Antonio Marangolo, Pierluigi Mingotti, Vince Tempera. Marinai di lungo corso e sicuro mestiere che del loro comandante sanno ormai tutto, soprattutto di quanto c’è bisogno per accompagnarlo adeguatamente: discrezione, ordine, compostezza e una manciata di coloriture che non disturbino la comprensione delle parole e l’ascolto della voce. Tra le canzoni presenti nel disco, la sua predilezione va a Canzone di notte n. 4, la quarta – appunto – che nel corso della carriera ha dedicato a quel momento magico e unico in cui le cose tornano a essere sè stesse: «Stavolta si tratta di un pezzo che torna indietro nel tempo, alla mia infanzia, quando il mulino di Chicon ancora funzionava, luogo mitico dei miei anni giovanili, fino a chiudersi su una visione attuale, con le luci del presepe e il raggiungimento di un senso di pace e tranquillità. Quegli anni lontani sono qui evocati anche dalle due voci che, all’attacco del brano, richiamano quelle dei miei genitori che mi ricordano che a letto si va per dormire non per leggere, perchè la luce elettrica andava risparmiata.
In realtà, però, una cosa del genere non me l’hanno mai detta... Anche se è vero, piuttosto, che mio padre spesso, quando mi vedeva divorare i giornalini a fumetti, mi rimproverava perchè sosteneva che così non avrei mai coltivato la voglia di leggere! Pensa te! Io che nella mia vita non ho fatto altro che leggere, sin da bambino... Ho letto di tutto, a cominciare dai romanzetti d’appendice che trovavo in casa portati da mia zia, che faceva la cameriera in quel di Genova e per questo era considerata l’intellettuale di famiglia!». Quella della lettura è davvero un’idea fissa per Francesco, che sente ancor più da quando un fastidio agli occhi gli crea più problemi del solito per dedicarsi a quest’operazione così usuale. Tanto che, quando mi viene di chiedergli con che cosa a suo parere dovrebbe uscire un giovane dopo avere frequentato le scuole superiori, risponde al volo: «Le cose che dovrebbe aver acquisito un giovane sono... una sola: l’amore per la lettura.
il maestro Vince Tempera
Il maestro Vince Tempera.
FRANCESCO CONVERSANO
 
è questa l’acquisizione più importante, che ti consente di coltivare la curiosità per il mondo! Purtroppo, anche se conosco la scuola italiana solo per i racconti che me ne fa Raffaella, penso abbia subito un netto declassamento, e anche la lettura non sia molto considerata. Qualsiasi lettura! Ricordo che, quando mi diedero il Premio Montale, vent’anni fa, era stato premiato insieme a me l’illustre poeta Nelo Risi, che nelle interviste sui suoi autori chiave rispose: Baudelaire, Leopardi... mentre io dissi il Paperino di Carl Barks, un autentico capolavoro!». E ridacchia. D’ altra parte, assieme alla lettura, tra le sue grandi passioni c’è la scrittura, praticamente da sempre. «Sì, è vero: sin da bambino volevo fare lo scrittore, anche se i miei genitori non ne erano per nulla convinti! Tanto più che, parlando con il mio maestro delle elementari, a Modena, mio padre che gliel’aveva rivelato si era sentito replicare brutalmente: “Sì, lo scrittore! Lui che a scrivere è un cane!”. Beh, penso che quel maestro avesse risposto così soprattutto perchè, come tutti dalle nostre parti all’epoca, era impregnato di positivismo, e disdegnava le attività umanistiche... ».
Francesco Guccini durante la registrazione del suo album
Il cantautore durante la registrazione del suo album.
FRANCESCO CONVERSANO
Una passione che lo portò, alla tenera età di dodici anni, a vincere un concorso indetto dal settimanale cattolico a fumetti Il Vittorioso, il cui tema era Descrivi la tua città. Naturalmente Francesco dedicò lo scritto a Sambuca Pistoiese, iniziando così: «Nella forra tortuosa e boscosa del Limentra occidentale...». Poi il primo lavoro, accettando per stipendio pochi soldi per firmare improbabili pezzi di cronaca sulla Gazzetta di Modena («un’esperienza massacrante, ventimila lire al mese per dodici ore al giorno!»); una passione che, ora che ha deciso di smetterla con la musica («e non tornerò indietro in questa decisione, mi conoscete», anche se ride di gusto quando gli suggeriamo di dire che era stato frainteso...), avrà modo di coltivare ancor più intensamente. Intanto, con due progetti in corso: per Natale, probabilmente, dovrebbe uscire la seconda parte del Dizionario delle cose perdute («ci metterò dentro la cabina telefonica e le cartoline con le scritte prestampate, quelle con le foto dei due innamorati; oggi ormai nessuno più scrive cartoline...»).
La proiezione al cinema Odeon di Bologna del film Francesco Guccini, la mia Thule
La proiezione al cinema Odeon di Bologna del film Francesco Guccini, la mia Thule.
FRANCESCO CONVERSANO
E poi la seconda puntata della saga di Poiana, l’ispettore della Forestale Marco Gherardini, che ha fatto il suo esordio come protagonista nel noir appenninico di Malastagione, uscito un paio d’anni fa, scritto a quattro mani con lo scrittore e amico Loriano Macchiavelli: «L’Appennino non sarà come le Alpi o le Rocky Mountains, ma ogni tanto, come tutte le montagne, richiede le sue vittime sacrificali...». Verrebbe da dire: nonostante la fine della sua lunga avventura musicale, il Nostro ha «tante cose ancor da raccontare», non più nei palasport, ma dagli scaffali delle librerie. Poi si torna sull’ultimo lavoro, giunto a ben otto anni da Ritratti, del 2004. In cui Francesco, dopo L’isola non trovata (1971), recuperata dal prediletto Guido Gozzano, ricorre alla metafora di un’altra isola, quella di Thule, descritta nei diari dell’esploratore greco Pitea come una terra di fuoco e ghiaccio dove non tramonta mai il sole. Il suo Virgilio stavolta è un altro poeta che apprezza da sempre, Jorge Luis Borges (il riferimento è alla poesia Un lettore, da Elogio dell’ombra).
Ne è uscita una canzone a metà fra il bilancio e il saluto da lontano: dopo un viaggio, lungo quasi mezzo secolo, che si spegne in una lunga cavalcata barocca, con l’occhio rivolto all’orizzonte, dove tutto finisce (L’Ultima Thule attende e dentro il fiordo / si spegnerà per sempre ogni passione / si perderà in un’ultima canzone / di me e della mia nave anche il ricordo). Ma è vero che l’avevi in testa da tanto tempo? «Certo, la prima strofa l’ho scritta una quindicina d’anni fa, ma il titolo l’avevo già deciso subito dopo Radici, nel ’72: pensavo di chiuderla lì con la mia carriera di cantautore... Ero giovane, avevo speranza nella vita che andava avanti, mentre penso che qui sia già indicativa la foto usata per la copertina del disco. Scattata sull’ottantesimo parallelo, non ritrae un tempo che passa ma l’arrivo di un tempo passato, giunto su una nave senza ciurma, perchè non c’è più l’equipaggio di un tempo, che ha le vele afflosciate. Non c’è più niente da fare, se non andare e perdermi là, nell’Ultima Thule, in quel luogo mitico lontano e perso nel ghiaccio... nella fine infinita». Mentre Francesco parla, mi torna in mente un passaggio del monaco Enzo Bianchi che rileggo spesso e mi verrebbe da applicare a questa situazione, che dice più o meno: «Credo ci sia posto per una spiritualità degli agnostici e dei non credenti, di coloro che sono in cerca della verità perchè non sono soddisfatti di risposte prefabbricate, di verità definite una volta per tutte... una spiritualità che si nutre dell’esperienza dell’interiorità, della ricerca del senso e del senso dei sensi, del confronto con la realtà della morte come parola originaria e con l’esperienza del limite; una spiritualità che conosce l’importanza anche della solitudine, del silenzio, del pensare, del meditare».
il bassista Pierluigi Mingotti.
Il bassista Pierluigi Mingotti.
FRANCESCO CONVERSANO
Mi torna in mente, poi, qualche verso de Gli artisti, altro pezzo de L’ultima Thule, così autobiografico e struggente e dalle atmosfere chiaramente francesi, dove lui canta: Fabbrico sedie e canzoni/, erbaggi amari, cicoria,/ o un grappolo di illusioni/ che svaniscono nella memoria,/ e non restano nella memoria. Come li spieghi, Francesco? «Orazio, il grande poeta latino, ha scritto: Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo e più immortale dell’immortale mole delle piramidi. Io non credo che farò quella fine lì, non ho scritto canzoni più durature del bronzo e delle piramidi. Penso che ci siano canzoni che fanno parte della vita di ognuno, ognuno di noi ricorda brani legati a certi episodi del suo percorso, ma non sono molto più che grappoli nella memoria ». Ma se è così, come si spiega che molti giovani conoscano a memoria le tue canzoni e non pochi ti seguano addirittura in ogni data dei tour? «Me l’hanno già chiesto altre volte, e di solito me la cavo con una battuta, rimandando alla mia grande bellezza fisica... Non lo so, forse perchè le mie canzoni sono scritte per dire delle cose, nascono da qualcosa di vero, e di questo i giovani se ne accorgono!». Mentre lo salutiamo, dopo le foto di rito che vanno ad aggiornare il nostro già corposo album, sbuca non si capisce da dove il gatto nero che compare nella Canzone di notte n. 4. E la notte, che s’insinua in ogni anfratto,/ contro gli angoli più oscuri del paese. La lunga notte pavanese.
BRUNETTO SALVARANI
Jesus Luglio 2013

E Guccini apre il suo vero repertorio


Una volta al cinema pioveva. Lo testimonia Francesco Guccini. Succedeva negli anni 50 del secolo scorso, quando la televisione non era ancora nata o muoveva i primi passi, e anche negli anni 60. Poi, a metà dei 70, cominciarono a sparire le sale di terza visione, e di seconda. Lo stesso accadde a quelle degli oratori, dove da decenni con sollecitudine accorta i preti mescolavano film e acqua santa a maggior gloria di Dio. Fu allora che al cinema smise di piovere. Dal bianco incerto degli schermi scomparve lo scintillio magico, lo scrosciar di gocce luminose che il tempo e l'uso ricavavano con perizia e inventiva dalla pellicola, convincendo generazioni intere che «l'effetto pioggia facesse parte della complessità del l'arte cinematografica».
D'altra parte, molto altro andò perduto in quell'Italia ancora cinematografica, ma ormai avviata a un futuro televisivo. Già negli anni 50, per esempio, cominciarono tempi grami per i preti. Non si trattava degli stessi che dietro il proiettore vigilavano sulla salute delle anime, e che contro il demonio – e contro le pellicole, già malconce per conto loro – volgevano la santa crudeltà delle forbici. Si trattava piuttosto d'un trabiccolo di legno a forma d'uovo. «Stecche ricurve lo foggiavano – ricorda Guccini, nato nel 1940 –, e al centro, nella parte inferiore, aveva un ripiano foderato di latta». Lì, sulla latta, veniva appoggiato uno scaldino pieno di cenere e braci. Il tutto era messo nel letto, sotto le coperte, prima di coricarsi nelle gelide notti d'inverno. Da dove venisse il nome dell'ingegnoso marchingegno non è certo. In ogni caso, l'etimo popolare voleva (e ancora vuole) che derivasse dalla sua abitudine evidente di infilarsi in tutti i letti.
Eran tempi così, diretti e non proprio politically correct. A confermarlo basta aggiungere il testo d'un motivetto allora parecchio in voga, di cui ai giorni nostri ancor vive in alcuni un'ombra di ricordo. Lo si canticchiava volentieri tra giovinastri, con aperto sprezzo d'una ipotetica signora âgée: «Ammazza la vecchia... col flit». E subito altri giovinastri ribadivano e rincaravano: «E se non muore... col gas». Oggi risulterebbe di difficile comprensione: non perché del flit s'è smarrita la memoria, ma perché lo stesso aggettivo «vecchio» è finito tra le cose perdute, sostituito con sollievo generale dal meno increscioso «grande». A parziale conforto dei più sensibili, e con l'aiuto della sapienza linguistica di Guccini, si può aggiungere che «in certi dialetti emiliani per "vecchia" ha da intendersi uno scarafaggio (vecia)». Resta impregiudicata ogni diversa congettura extraemiliana.
Molto altro si trova fra le pagine di questo documentato Dizionario delle cose perdute. Per esempio, il chewingum riciclato: quello che in anni meno abbienti dei nostri a un certo punto della masticazione si addolciva con lo zucchero, per rinnovarne la soddisfazione. E quando la fatica o la decenza volevano che si smettesse di lavorar di mascelle, invece di sputarlo lo si avvoltolava nel fazzoletto in attesa di tempi migliori. I più spicci lo infilavano direttamente in tasca, o lo appiccicavano sotto le sedie o sotto i banchi. E c'è poi anche la maglia di lana, tra i cimeli dimenticati di mezzo secolo fa. Non quella confezionata, ma quella fatta in casa, grossolana e funesta. Il suo parente stretto, ancor più funesto, era il costume da bagno, anch'esso di lana. Quando si usciva dall'acqua, non c'era scampo: s'allungava ben sotto il cavallo e metteva in rilievo quel che avrebbe dovuto nascondere. Lo portavano tutti, dai bambini agli adulti. Ma il look sui secondi era più tragico.
Tra le poche soddisfazioni dell'epoca, c'era comunque il fatto che la televisione era timida e incerta. O almeno non era invadente e cinica come sarebbe poi diventata. A voler essere ottimisti, e ingenuamente certi che il passato sia sempre meglio del presente, si può aggiungere che ancora giravano per le piazze i cantastorie. L'immagine è poetica: «Arrivavano anche da soli, ma più spesso in due: il cantastorie vero e proprio e la spalla... Mettevano il banchetto con la loro roba (o addirittura un piccolo palco), e cominciavano a fare "treppo", cioè a cercare di radunare gente attorno, suonando un qualche strumento». E poi raccontavano, appunto: di poveri emigranti e di giovani spose traditrici, o di madri indegne che avevano ucciso teneri figlioletti e poi se li eran mangiati... Prendevano spunto da fattacci di cronaca nera, e ci ricamavano su. E magari si lamentavano che di "bei delitti" non ce ne fossero sempre. Insomma, né più né meno di quel che oggi fanno i talk show più seguiti.
Conviene allora lasciar perdere i cantastorie e tornare con il ricordo dentro un cinema di terza visione, con il sonoro che ogni tanto va «in un curioso effetto eco-strascinamento voce, e trac!, si rompe la pellicola». Se oggi la pellicola non si rompe più, comunque resta uguale la cosa più importante. Ce la indica Guccini, nonostante tutta la sua nostalgia: «Il cinema è qualcosa che si muove quando viene proiettato sullo schermo». In ogni caso, tutt'altra cosa dalla televisione. Che piova o che non piova.

ilsole24ore.com

Francesco Guccini, 
Dizionario  delle cose perdute
Mondadori, Milano, pagg. 142, € 10,00