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In un’esposizione unica e irripetibile, al Museo Poldi Pezzoli di Milano, con il sostegno di Fondazione Bracco quale Main Partner, verrà presentato – per la prima volta nella storia, dopo 555 anni dalla sua realizzazione – un capolavoro di Piero della Francesca (1412–1492): il Polittico agostiniano

 

Nel 1469 l’artista finiva di dipingere il suo magnifico polittico per l’altare maggiore della chiesa degli agostiniani a Borgo San Sepolcro (Arezzo), iniziato nel 1454. La pala, fra le opere di maggiore impegno di Piero della Francesca, fu smembrata e dispersa entro la fine XVI secolo. Oggi ciò che resta del polittico agostiniano, ovvero otto pannelli (la tavola centrale e gran parte della predella non sono state finora rintracciate), si trova in musei in Europa e negli Stati Uniti, oltre che al Museo Poldi Pezzoli, proprietario del panello raffigurante San Nicola da Tolentino, uno dei quattro santi che appartenevano alla parte centrale del polittico.

In passato alcuni musei avevano già provato a riunire il polittico: lo stesso Museo Poldi Pezzoli nel 1996, la Frick Collection nel 2013 e il Museo dell’Hermitage nel 2018. Ma, non ottenendo tutti i prestiti, ne hanno proposto solo una ricostruzione “virtuale”. Dal 20 marzo 2024, grazie alla collaborazione con i grandi musei proprietari dei pannelli superstiti, la Frick Collection di New Yor (San Giovanni Evangelista, la Crocifissione, Santa Monica e San Leonardo), il Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona (Sant’Agostino), la National Gallery di Londra (San Michele Arcangelo) e la National Gallery of Art di Washington (Sant’Apollonia) sarà possibile ammirare riuniti tutti i frammenti del famoso polittico. 

La mostra, ideata da Alessandra Quarto, direttrice del Museo Poldi Pezzoli, è a cura di Machtelt Brüggen Israëls (Rijksmuseum e Università di Amsterdam) e Nathaniel Silver (Isabella Stewart Gardner Museum, Boston), studiosi di livello internazionale e gli ultimi a proporre la ricostruzione del polittico nel 2013 presso la Frick Collection di New York sulla base delle indagini finora condotte.
L’organizzazione della mostra è a cura di Lavinia Galli, conservatrice, e Federica Manoli, collection manager, del Museo Poldi Pezzoli, con il coordinamento di Arianna Pace, dell’ufficio mostre.

Presentati in un suggestivo allestimento a cura dell’architetto Italo Rota e dello studio internazionale di design CRA-Carlo Ratti Associati, i pannelli saranno accostati tra loro con le cornici che li hanno “accompagnati” in questi secoli di storia collezionistica. Il progetto mira a restituire al pubblico e agli studiosi la piena esperienza dell’opera pierfrancescana con tutta la sua potenza evocativa dell’epoca rinascimentale.

Visti da vicino i dipinti riveleranno la minuziosa attenzione del maestro per i tessuti e i gioielli lussuosi come il broccato d’oro del Sant’Agostino e l’armatura del San Michele Arcangelo e, per contro, la semplicità del saio del San Nicola da Tolentino, austero e ruvido. Mostreranno inoltre i giochi di luce che Piero della Francesca ha sapientemente utilizzato per ognuno dei pannelli, rivelando una grande attenzione per i dettagli degli ornamenti che oggi dialogano perfettamente con le arti decorative presenti nella collezione del museo milanese. 

Grazie al sostegno di Fondazione Bracco, da sempre impegnata nella valorizzazione del rapporto tra scienza e arte, in programma anche un’articolata campagna di analisi diagnostiche non invasive su alcune opere presenti in mostra, che saranno parte integrante del percorso espositivo e che ripercorreranno le tecniche di lavoro del pittore e i materiali utilizzati, nonché le strade della composizione, dello smembramento e della ricostruzione del polittico. 

La mostra a Milano sarà quindi un’occasione eccezionale per tutto il pubblico e fondamentale ai fini della ricerca e dello studio da parte degli esperti di tutto il mondo; verranno infatti organizzate conferenze, giornate di studio e confronto fra i grandi conoscitori di Piero della Francesca e della sua pittura.

Info utili

DOVE

Museo Poldi Pezzoli. Via Manzoni 12, Milano

QUANDO

20 marzo — 24 giugno 2024

INGRESSO

Intero — € 14,00
Ridotto Over 65 — € 10,00

ORARI

Mercoledì — Lunedì: 10:00 — 19:30
(ultimo ingresso 18:30)

CONTATTI

info@museopoldipezzoli.org

https://museopoldipezzoli.it/

Guercino a Torino, opere da 30 musei e collezioni. Dal 23 marzo al 28 luglio a Palazzo Chiablese dei Musei Reali

 

Oltre un centinaio di opere provenienti da più di 30 musei e collezioni per raccontare non solo un artista ma il mondo dell'arte nel '600.

'Guercino.

Il mestiere del pittore' è la mostra ospitata dai Musei Reali di Torino a Palazzo Chiablese, dal 23 marzo al 28 luglio che presenta, in 10 sezioni, le opere di uno dei maggiori protagonisti della scena artistica dell'epoca e di suoi contemporanei.
    "Volevamo non tanto fare una mostra monografica -, spiega Annamaria Bava, curatrice dell'esposizione insieme a Gelsomina Spione - ma far sì che Il Guercino diventasse una voce narrante per raccontare il mestiere dell'artista nel 600, la sua vita quotidiana, come si forma, le persone che frequenta, la rete che gli sta intorno, i colpi di fortuna che gli permettono di diventare un grande artista, come si confronta con la scienza e le credenze del tempo. La mostra - aggiunge - vuole entrare nella bottega e svelare qual era lo stupore che suscitava questo artista che sa far emozionare e mettere in scena, cose che lo fanno diventare un grande protagonista amato da tutti".
    La mostra, prodotta da CoopCulture con Villaggio Globale International, arriva all'indomani della riapertura della Pinacoteca Civica di Cento, paese natale del Guercino, e si sviluppa partendo da un importante nucleo di dipinti e disegni appartenenti alle collezioni della Galleria Sabaudia e della Biblioteca Reale di Torino.
    In esposizione anche due opere inedite provenienti da collezioni private e lavori di artisti coevi come Guido Reni, i Carracci e Domenichino. A chiudere il percorso espositivo una sezione dedicata a Sibille e 'Femmes fortes', le grandi eroine del mito e della storia.

ANSA.IT

(Segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - Turismo Culturale)

Da Kennedy al Papa: grande mostra a Roma sui menù che hanno fatto la Storia

 
Palermo, 14 ottobre 1889 -Pranzo offerto a Francesco Crispi

Ci sono quelli dei matrimoni reali inglesi, e di incontri politici che hanno segnato la Storia, nel bene e nel male. Sì, perché molto spesso la storia si è fatta – e si fa ancora – a tavola.

I menù sono gli insoliti protagonisti di un’originale mostra che arriverà per una manciata di giorni a Roma. L’appuntamento è dal 5 al 7 aprile al Garum – Biblioteca e Museo della Cucina per ammirare, tra gli altri, i menù dedicati al viaggio di Papa Francesco a Cuba, al primo pranzo di Hitler e Mussolini, agli incontri tra Castro e Kennedy, alle celebrazioni per i matrimoni di Carlo e Diana e William e Kate, agli incontri internazionali dei presidenti della Repubblica Italiana, come quello fra Cossiga e Michail Gorbaciov all’indomani della caduta del Muro di Berlino. A vent’anni dalla mostra di menu al Castello Sforzesco di Milano, a Roma prenderà vita la più importante esposizione mai dedicata ai menù storici di tutto il mondo. “Un mondo di menu: la grande storia a tavola”, mette in esposizione oltre 400 menù storici e contemporanei, alcuni dei quali mai resi visibili al pubblico, provenienti dalle maggiori collezioni private d’Italia e non solo.

La mostra suggella la collaborazione fra “Menu Associati – associazione internazionale di menu storici” e Garum – Biblioteca e Museo della Cucina della Fondazione Rossano Boscolo Sesillo.

La mostra si articola attraverso 18 pannelli monotematici e si conclude con un pannello aggiuntivo che vuole anticipare l’impegno di Menu Associati e dell’associazione culturale CheftoChef emiliaromagnacuochi a sostegno della candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio dell’Unesco.

Molti dei menu saranno esposti per la prima volta al mondo, a partire dal più antico menu a stampa conosciuto (1803) fino a menu a noi contemporanei quali quello del pranzo offerto da Casa Artusi al presidente Napolitano il 7 gennaio 2011 o quello relativo al viaggio di Papa Francesco a Cuba, per incontrare il patriarca Kirill.

Nella visione proposta dalla mostra, il menu, oltre che un manufatto spesso di fattura pregevole e artistica e testimone oculare della storia della gastronomia, rappresenta una sorta di cronista dell’economia, delle scienze sociali e politiche e della quotidianità a sé contemporanee. Difatti i menu esposti sono legati a eventi storici e situazioni particolari quali, ad esempio: le celebrazioni per lo Statuto Albertino (1848), la discussa visita di Garibaldi a Londra (1864), la Breccia di Porta Pia e le due Guerre Mondiali, fino ad arrivare alle relazioni diplomatiche del secondo dopoguerra come nel caso del menu della colazione offerta dal Presidente Cossiga a Michail Gorbaciov all’indomani della caduta del Muro di Berlino. Ad essi si affiancano menu che ci raccontano le ultime ore del Titanic, le grandi imprese di Amelia Earhart e Charles Lindbergh, Umberto Nobile e Francesco De Pinedo. Dal primo pranzo di Hitler e Mussolini (1934) e quelli di Castro e Kennedy correlati al periodo delle nazionalizzazioni cubane, passando per le incoronazioni di Elisabetta II e di Nicola II, l’ultimo zar. Ma in mostra si potranno scoprire anche menù collegati alle celebrazioni e alle inaugurazioni del Canale di Panama e della Tour Eiffel; menu stampati su supporti speciali come seta e porcellana spesso preparati da grandi artisti quali Alphonse Mucha; i menù delle grandi Expo, straordinarie occasioni d’incontro e di scambio per i popoli della Terra: dall’expo del Crystal Palace del 1851 a Milano 2015, passando per la grande Expo parigina del 1900. E ancora: menù celebrativi dei grandi eventi sportivi, dai primi Tour de France al Touring Club Italiano, dalle Olimpiadi del 1936 al Primo Giro Aereo d’Italia.

La mostra sarà aperta da venerdì 5 a domenica 7 aprile dalle 10 alle 18 con orario continuato. Ingresso gratuito.

La foto pubblicata è stata inviata dall’ufficio stampa di Menù Associati
lagenziadiviaggimag.it

A Genova capitale del libro gli scatti Librarium di Magurno. La mostra in bianco e nero a Palazzo del Grillo fino al 31 marzo

 

GENOVA -  Inaugura giovedì 7 alle 18 a Palazzo Grillo, e sarà visitabile fino al 31 marzo, la mostra Librarium di Fulvio Magurno, un evento artistico di Genova Capitale del libro, prodotto dal Comune di Genova a cura di Maurizio Gregorini e Anna Orlando Un viaggio nel mondo della lettura e del libro attraverso una suggestiva serie di immagini in bianco e nero, scattate da Fulvio Magurno tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta del secolo scorso in Europa, Africa, Asia.

    In queste raffinate fotografie l'oggetto scritto è l'unico soggetto, la fascinazione per la parola scritta emerge in ogni scatto: nelle pagine consumate di un antico volume, nelle pagine fermate da un sasso per impedire alla brezza marina di scompigliarle, nello sguardo assorto di un bambino immerso nella lettura, nei dorsi di volumi celati dal velo di una tenda, scolpite su pietra erosa.

Il legame di Fulvio Magurno con la letteratura è ricorrente nel suo processo creativo: sperimentatore, fotografo e sofisticato intellettuale, costantemente alla ricerca di connessioni interdisciplinari tra le più diverse forme artistiche, Fulvio Magurno sublima nei suoi scatti, al tempo stesso modernissimi e classici, un universo culturale profondo e stimolante.
    In un momento come quello attuale, dove la lentezza della lettura, il gesto di sfogliare un libro, il sentire la consistenza delle pagine tra le dite sembrano appartenere ad un mondo in via d'estinzione, sopraffatto dalla voracità del mondo digitale, Librarium appare come un'oasi di calma e di riflessione. Un libro, una lettera, una poesia sono parole scritte e parole lette.

Riproduzione riservata © Copyright ANSA

La mostra a Firenze. La forza creativa delle donne nell'Art Nouveau di Mucha

 
Alphonse Mucha, “Disegno tessile: Donna che tiene in mano una margherita”, 1900 - Justin Orwin / Firenze, Museo degli Innocenti, "Alphonse Mucha. La seduzione dell’Art Noveau"

Dici Alphonse Mucha e pensi inevitabilmente ai suoi ritratti femminili. Donne leggiadre, sospese fra reale e ideale, col capo cinto di corone floreali. La mostra al Museo degli Innocenti di Firenze, però, prende le mosse dal profilo di una donna reale, il classico incontro che segna la svolta nella carriera dell’artista in cerca del linguaggio che meglio possa tradurre in immagini il suo mondo interiore. Siamo nella Parigi fin de siècle, la donna in questione è Sarah Bernhardt che, colpita dallo stile di Mucha, gli commissiona la locandina per il suo spettacolo del 1894, Gismonda. Quasi una sfida a uscire da forme espressive più tradizionali, per cimentarsi con un genere nuovo che fino a quel punto non aveva conosciuto una dignità artistica. Il ritratto, chiaramente influenzato dall’arte bizantina nella regalità degli ori e nella composizione, restituisce perfettamente la potenza espressiva dell’attrice e il dramma del personaggio.

Il successo porterà a un accordo per altre affiche. Colpisce, fra quelle esposte nella mostra al Museo degli Innocenti di Firenze "Alphonse Mucha. La seduzione dell’Art Nouveau" (fino al 7 aprile), la celebre locandina di Medea, accompagnata dai bozzetti preparatori. Il risultato finale vive di forti contrasti cromatici, attira e inquieta. Morbidezza e sinuosità lasciano spazio a linee tese che convergono sulla mano destra e proseguono idealmente lungo la lama insanguinata, mentre il braccio sinistro è allusivamente avvolto da un bracciale a forma di serpente. Ai piedi le giovani vittime mentre il viso, in parte coperto dal velo nero, si illumina solo della follia nello sguardo incorniciato dai fiori di una cupa ghirlanda e dalle punte della corona. Un’immagine di rara potenza che testimonia l’interesse per il simbolismo e la peculiare attenzione ai condizionamenti psicologici della percezione visiva dell’opera.

Resta però un’eccezione fra le donne di Mucha, “forze creative che generano altre creature”, icone e muse alle quali è dedicata la prima sezione. Ritratti di donne sensuali mai ridotte a mero oggetto del desiderio, donne ancora al passo coi tempi perché senza tempo, come l’arte doveva essere nella concezione di Mucha: esplorazione della “tradizione degli antenati”, che non sfocia in un’evocazione nostalgica ma anzi aspira a mantenere in vita quella tradizione “contribuendo alla sua evoluzione organica”.

A guardarle, queste donne bellissime e magnetiche colte in una familiare quotidianità, ci si chiede se a inforcare biciclette o a preparare cioccolate calde per i bambini che le circondano festanti siano dee scese in terra o comuni mortali divinizzate. Il mito, d’altra parte, rimane, insieme al folklore, un riferimento costante. Una delle sezioni più originali dell’esposizione racconta attraverso scatti fotografici e bozzetti l’interesse dell’artista per la Bretagna. A incuriosire Mucha erano soprattutto le origini celtiche, comuni anche alla sua terra (i Galli Boi arrivarono in Boemia nel 600 a.C.), e il modo in cui quella regione francese più di altre avesse preservato fedelmente le sue tradizioni e la sua identità.

L’attenzione al passato, infatti, si accompagna in Mucha a un sentimento nazionalista da considerare nel contesto dell’epoca: l’indipendenza della patria dall’Impero austro-ungarico arriverà solo nel 1918 con la nascita della Cecoslovacchia. Il desiderio di contribuire al suo riscatto lo spinge a sposare le idee massoniche, ma anche a dar forma alla sua opera più ambiziosa, l’Epopea Slava, venti tele che guardano alla leggenda e al passato slavo per orientare un futuro all’insegna della libertà. La tensione verso il sacro, che affonda le sue radici nell’insegnamento della madre, cattolica praticante, e nei trascorsi giovanili come corista della cattedrale di Brno, nella maturità cercherà risposte altrove: nell’esoterismo, nella teosofia, nell’occultismo.

I versi del Padre Nostro, reinterpretati, sono allora piegati a raccontare con le immagini l’itinerario dell’uomo dal buio alla luce verso l’Ideale Divino nel volume Le Pater, che avrà grande visibilità all’Esposizione di Parigi nel 1900. Sempre sottesa alla ricerca estetica di Mucha resta però una filosofia dell’arte come “esigenza spirituale”, che gli permette di abbracciare pienamente la modernità rifiutando recisamente il concetto di “arte per l’arte”. Mucha non disdegnerà anzi di legare il suo stile, che segna un’epoca, anche a prodotti commerciali alla portata di tutti, con l’ambizione di contribuire attraverso etichette e pubblicità a un’educazione estetica, se non proprio spirituale, delle masse, prima che la deriva bassamente consumistica del connubio fra immagine e prodotto commerciale prendesse gradualmente il sopravvento.

avvenire.it

Nell'anno in cui si celebrano i 150 anni dalla nascita ufficiale dell'Impressionismo, a Palazzo Reale la mostra "De Nittis

Milano celebra per la prima volta il talento di Giuseppe De Nittis (Barletta 1846 – Parigi 1884) con la mostra DE NITTIS. Pittore della vita moderna a Palazzo Reale dal 24 febbraio al 30 giugno.  Curata da Fernando Mazzocca e Paola Zatti, presenta circa 90 dipinti, tra olii e pastelli, provenienti dalle principali collezioni pubbliche e private italiane e straniere, tra cui il Musée d’Orsay e il Petit Palais di Parigi, i Musée des Beaux-Arts di Reims e di Dunkerque, gli Uffizi di Firenze – solo per citarne alcuni – oltre allo straordinario nucleo di opere conservate alla GAM di Milano e una selezione dalla Pinacoteca De Nittis di Barletta, la raccolta più vasta e significativa di opere dell’artista, arrivate alla sua città natale grazie al lascito testamentario della vedova Léontine. Una fortuna espositiva, quella di De Nittis, transitata attraverso i Salon parigini, la prima mostra degli Impressionisti nel 1874 e le grandi Esposizioni Universali, lo ha consacrato come uno dei maggiori protagonisti della pittura dell’Ottocento europeo. Dopo un periodo di oblio, fu la Biennale di Venezia del 1914 a rivalutarne il talento in una magnifica retrospettiva seguita, in anni più recenti, da altri appuntamenti fondamentali come la rassegna Giuseppe De Nittis. La modernité élégante allestita a Parigi al Petit Palais nel 2010-11, e nel 2013 la fondamentale monografica a lui dedicata a Padova da Palazzo Zabarella.

Famiglia Cristiana

La mostra a Forlì. Preraffaelliti: l’arte del passato per parlare dell'uomo moderno

 

Ford Madox Brown, “Deposizione”, 1868 (particolare) - Forlì, Musei San Domenico


Con oltre 300 opere ai Musei San Domenico di Forlì un’esposizione scruta la lezione dei pittori inglesi, di Morris e Ruskin

L’obiettivo, confessato o sottinteso, dei Musei San Domenico di Forlì, è sempre stato quello di dire l’ultima parola, quella definitiva, sugli artisti e i movimenti presentati, sui temi affrontati. A volte l’obiettivo è stato raggiunto e riconosciuto da attestati prestigiosi a livello internazionale quale il Global Fine Art Awards che ha premiato le mostre L’Eterno e il Tempo tra Michelangelo e Caravaggio (2019) e Ulisse. L’arte e il mito (2021). Altre volte i riconoscimenti internazionali sono mancati, ma non quelli di gran parte della critica nostrana e anche il riscontro del pubblico è stato sempre lusinghiero.

Così che anche in questa occasione, come del resto nelle precedenti, non ci si è risparmiati nello sforzo organizzativo e nell’impiego di risorse finanziarie per mettere in piedi una rassegna che lasciasse un’impronta. E la mostra Preraffaelliti. Rinascimento moderno (fino al 30 giugno; maxi catalogo Dario Cimorelli Editore), recentemente inaugurata dopo una preparazione che ha richiesto più di tre anni, con un monumentale allestimento che presenta trecentocinquanta opere (si va dalle tele, alle sculture, dai gioielli, agli oggetti d’arredo), parecchie delle quali escono eccezionalmente da prestigiosi musei e da esclusive collezioni private, un segno di sicuro lo lascerà. Almeno per un quinquennio.

Sì, perché da un po’ di tempo a questa parte le mostre sui Preraffaelliti si confezionano a scadenza quinquennale. Questa di oggi, infatti, segue la mostra Preraffaelliti. Amore e desiderio tenuta a Milano nel 2019 che a sua volta veniva dopo Preraffaelliti. L’utopia della bellezza realizzata nel 2014 a Torino. Dunque il tema è stato ampiamente indagato e allora quali sono i punti di interesse di questa avvincente quanto impegnativa esposizione? Li sottolinea Gianfranco Brunelli, direttore generale delle grandi mostre dei Musei San Domenico, che ha coordinato la rassegna curata da un nutrito gruppo di studiosi italiani e stranieri.

«Quella che viene raccontata, ampiamente come non mai, è la storia di un movimento che non rappresenta un ritorno reazionario agli stili del passato, ma un progetto visionario capace sia di rendere le opere che ne nacquero qualcosa di decisamente moderno, sia di restituire forza e presenza alla tradizione italiana. Per questo, per la prima volta viene affiancata una consistente rappresentanza di artisti italiani, tra cui opere di antichi maestri, alle opere britanniche, ma anche opere di artisti italiani di fine Ottocento ispirate ai precursori d’oltre manica, così da creare una sintesi tra le diverse esperienze della Gran Bretagna e dell’Italia».

Dunque siamo a metà del XIX secolo quando si sta schiudendo il mondo del futuro con la caotica e sorprendente rivoluzione industriale alle porte. Perfettamente consapevoli di vivere un momento storico irripetibile che ribalta e accelera ogni aspetto della società, uniti da un comune sentire ostile alla società formalistica e arida che sembra dominare l’Inghilterra e in sintonia con la filosofia purista di John Ruskin, un terzetto di artisti decide che l’arte deve farsi foriera di un cambiamento di stile e di contenuti in opposizione alle alienanti contraddizioni della nascente produzione industriale.

Dove trovare ispirazione, strumenti e valori per affrontare tale compito? Nell’antichità, nel passato. Un passato più fantastico che storico, più sognato che reale. L’arte deve forgiare un nuovo alfabeto e la bellezza è la grande sorgente a cui abbeverarsi, una pozione magica che avrebbe nutrito spirito e mente con la sua purezza e sincerità. Una bellezza da rintracciare in momenti storici precisi, a partire dall’arte italiana pre-rinascimentale per arrivare fino alla linea di confine rappresentata da Raffaello che è l’emblema del cortigiano, di colui che pone la sua indubbia eccellenza al servizio del potere.

Un’autentica rivoluzione agli occhi della tradizione accademica dell’Inghilterra vittoriana. I tre, sui vent’anni, John Everett Millais, Dante Gabriel Rossetti e William Hunt (ai quali la mostra dedica ampi focus con opere iconiche) fondano nel 1848 la confraternita dei Preraffaelliti che elegge come riferimenti Old Masters del Medioevo e del primo Rinascimento quali Cimabue, Beato Angelico, Sandro Botticelli, Filippo Lippi, Luca Signorelli, che aprono il percorso espositivo. Un percorso che si allarga alla seconda generazione preraffaellita che comprende William Morris, Edward Burne-Jones, Frederic Leighton, George Frederic Watts (presenti con vere e proprie personali: di Burne-Jones ci sono oltre venticinque opere) che con una rilettura formale dell’intero Cinquecento gettano lo sguardo fino all’area veneta di Veronese e Tiziano e realizzano lavori di sorprendente originalità visiva e di perfezione estetica, contraddistinte da una messa a fuoco nitida e dall’attenzione al dettaglio in ogni punto della superficie.

Blu oltremare, rosso carminio, verde pavone (è il colore utilizzato nell’allestimento) sono i pigmenti principali della tavolozza preraffaellita, stesi in macchie nette a mosaico e mai velati, sulla tela preparata con il bianco per mantenere i colori abbaglianti, dalle tonalità stridenti e dissonanti. A condurre il movimento all’interno del Novecento è la terza generazione dei Preraffaelliti influenzati dai giganteschi arazzi (sono in mostra) di Burne-Jones dedicati al Santo Graal presentati alla Esposizione Universale di Parigi del 1900.

L’esposizione ha il merito di soffermarsi su questo periodo, quasi mai o raramente approfondito, e di offrire l’occasione di apprezzare l’opera di artisti quali John William Waterhouse, Robert Anning Bell, Charles Haslewood Shannon, poco conosciuti, ma che reggono benissimo il confronto con i loro più affermati colleghi delle generazioni precedenti. Così come è altrettanto apprezzabile l’attenzione che viene riservata, al termine del percorso espositivo, alla fascinazione che gli artisti italiani di fine Ottocento (tra questi Giulio Aristide Sartorio e Adolfo De Carolis) subiscono per il “Rinascimento moderno” d’oltre Manica.

avvenire.it

La mostra a New York. Bisanzio e l’Africa, una storia mai raccontata

 
Frammento tessile con Artemide e Atteone, Egitto, V-VII secolo - Metropolitan Museum, New York

La circospezione con cui ci muoviamo nell’analisi della storia dell’arte, ma anche della storia stessa, ha spiccatamente un carattere temporale, rigidamente progressivo, marcatamente occidentale. Procedendo verticalmente nel passato, raccogliamo qua e là ciò che ci pare utile a tracciare un sentiero evolutivo, o quantomeno causale. Maggiori resistenze, scaturite da un’indagine più ampia e complessa, subentrano se la stessa operazione dobbiamo condurla sulla direttrice spaziale. Che sia una forma di narcisismo eurocentrico o la cronica mancanza dell’esercizio della geografia e della storia nelle nostre esistenze, resta il fatto che spostarsi anche solo di qualche meridiano o parallelo sembra uno sforzo inconcepibile. A smarcarsi, efficacemente, ha provato il Metropolitan Museum di New York con la mostra “Africa & Byzantium” (sino a domenica, poi traslocherà al Cleveland Museum of Art dal 14 aprile). Il cuore del progetto risiede proprio in quello scarto spaziale: la storia dell’arte ha a lungo enfatizzato l’importanza dell’Impero Bizantino (circa 330-1453), nelle canoniche giurisdizioni europee e asiatiche (da Ravenna a Salonicco, fino a Damasco, passando per l’epicentro Costantinopoli, ora Istanbul) ma si è poco dedicata ai profondi contributi artistici che l’Africa – le odierne Egitto, Algeria, Tunisia, Libia, Sudan, Etiopia – ha dato alla cultura mediterranea.

Su questo valore gravita l’intera impresa espositiva, coordinata dalla Associate curator of byzantine art di casa, Andrea Achie. Da questo spessore la curatrice ha fissato tre macro obiettivi, ambiziosi e non perfettamente risolti. Il primo, doveroso, sfida la comprensione convenzionale della separazione di Bisanzio dall’Africa, accendendo un faro sull’osmosi reciproca tra l’arte delle due sponde opposte del Mediterraneo. Il secondo si chiede dove e quando Bisanzio finisca. Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, le maestranze etiopi e copte dell’Africa orientale proseguirono sul solco dell’arte romana e bizantina fino al Ventesimo secolo, contribuendo alla costruzione dell’immaginario estetico occidentale. Una tesi non del tutto convincente, che fa il paio con il terzo intento, traballante: rappresentare l’unicità della “nuova” fattura. Se l’esposizione ha infatti il pregio di illustrare il sincretismo e l’emanazione culturale dei continenti in gioco, non circoscrive le specificità peculiari della produzione africana in questione, significativa ma ancillare. Parlano le opere esposte. Centottanta manufatti, soprattutto d’epoca medievale (con una breve appendice legata alle creazioni contemporanee, interessante ma ininfluente ai fini della mostra), provenienti da trenta Paesi nel mondo, perlopiù mai esposti, che mostrano l’importanza dell’Africa nello sviluppo intellettuale del tempo. Dall’Egitto, e ai centri di potere e sapere come Alessandria e il monastero di Santa Caterina nel Sinai, a Tunisi, capitale nella produzione dei mosaici, o la Valle del Nilo con il suo fertile fermento culturale. Storie di regni che si perdono sulla via dell’acqua verso il Sahara, solcando la Nubia, anello di congiunzione tra le genti del bacino Mediterraneo e quelle dell’Africa nera. Il limite, però, è non riuscire a dimostrare come queste regioni divengano un nuovo cuore propulsore, una nuova officina delle arti che influenzerà a sua volta il Vecchio Continente, come predisposto dalla mostra.

Ma a dire il vero, tutto ciò, poco importa. Ciò che importa, ed è sublime, è questo insieme di preziosi oggetti – mosaici, sculture, ceramiche, tessuti, dipinti, monili, manoscritti – che raramente si assimilano in unico corpo organico. Testimonianze di un pezzo di storia che si è “perso”, l’Impero romano che trapassa in quello bizantino condividendo le coste meridionali del Mare Nostrum, che si bagna nell’Oasi del Fayyum e percorre il regno di Kush, Axum, Makuria, passando per la cattedrale di Faras, ora sommersa dalle acque del Lago di Nasser. Una regione estremamente cosmopolita, costellata di società multietniche ed eterogenee.

Ne sono limpide sentinelle due opere chiave, entrambe eseguite durante il periodo tardo antico (dal 284 al 641 circa), la prima delle tre parabole temporali in cui si sviluppa l’esposizione. Una si impone al visitatore appena varcato l’ingresso alle sale, la Gallery 199. Monumentale e magnetica, si propaga in una riproduzione illustrativa anche sulla facciata del museo. Si tratta del frammento di un mosaico a pavimento risalente alla fine del II secolo, parte di una grande sala da pranzo di una villa tunisina. Dal carattere dinamico e realistico, l’opera mostra quattro uomini (e il braccio di un quinto), finemente drappeggiati e seguiti dalle loro stesse ombre, intenti a portare il necessario per allestire un banchetto: vino, pane, carne, pietanze varie. Ognuno di loro ha un colore della pelle differente, una pettinatura e un abbigliamento diverso, proviene da zone disparate dell’Impero. Ma tutti sono romani, e tutti saranno da lì a poco bizantini, fanno parte di un unico e sfaccettato mondo. «Chi sa ora – chiese sant’Agostino nel 416 alla sua comunità di Cartagine – quali popoli dell’Impero Romano fossero cosa, dal momento che tutti sono diventati romani e tutti si chiamano romani?»

L’altra testimonianza tangibile risiede in un frammento tessile decorato, ritrovato in Egitto, che mostra la dea greca della caccia Artemide e il cacciatore Atteone raffigurati con la pelle nera, sintomo di un’integrazione trasversale e senza confini, che coinvolge figure classiche senza frapporre intermediazioni. Siamo tra il V e il VII secolo nella città di Akhmim, sulla riva orientale del Nilo. Sempre di area egiziana è un dipinto di una Vergine col Bambino, Santi, Angeli e la Mano di Dio, un’opera emblematica che racconta come queste regioni siano state tra le prime a convertirsi al cristianesimo. Tanto che questa è una delle icone più antiche del mondo, probabilmente donata al monastero di Santa Caterina da Giustiniano tra il 548 e il 565, quando l’imperatore bizantino ordinò che il sito fosse fortificato e dotato di una chiesa. L’importanza dell’immagine, e del luogo come culla paleocristiana, è certificata dal fatto che un numero indefinito di artisti la usarono come modello dopo averla osservata. Manifesto, ad esempio, il debito figurativo di una Vergine sul Trono finemente intessuta nella lana risalente al VI secolo.

Ancora più interessante è il rapportoiconografico che la mostra allaccia prendendo in considerazione opere realizzate nella stessa area ma con matrice pagana. Oggetti cristiani e pagani non solo coesistono durante la tarda antichità, ma interagiscono tanto da destabilizzare il nostro consolidato pensiero sull’arte religiosa. Per esempio, non è da escludere che il culto egizio di Iside sia nei secoli confluito nella devozione cristiana verso la Vergine Maria. Del resto, un dipinto su tavola egiziano di Iside del II secolo assomiglia curiosamente a un’icona della Vergine del VI secolo, forse dipinta a Costantinopoli. I lineamenti allungati, la posizione degli occhi e la resa della figura in uno spazio poco profondo suggeriscono non solo affinità artistiche ma una memoria culturale profonda e persistente delle tradizioni precristiane.

Poi fu Islam, ma solo a Nord. Alla fine del VII secolo, gli eserciti arabi musulmani sottrassero l’Africa settentrionale al controllo bizantino e stabilirono la nuova capitale a Kairouan, in Tunisia. Nel frattempo, in Egitto, i monasteri cristiani copti persistevano anche sotto il nuovo dominio religioso. La seconda fase della rassegna traccia l’ascesa del cristianesimo in Africa tra l’VIII e il XVI secolo, epoca in cui fiorirono peculiari comunità artistiche lungo la valle del Nilo, interconnesse con Roma e Bisanzio. Tra i punti salienti di questa sezione troviamo una serie di croci etiopi, realizzate dal XII al XVII secolo. Pezzi che rivelano una stupefacente gamma di forme e motivi geometrici, a dimostrazione del virtuosismo progettuale degli artisti del tempo. Realizzati per condensare i molteplici significati simbolici della croce, le opere si traducono in una sorta di reticolato mistico, quasi astratto. A queste si accompagnano altre glorie del periodo: i monumentali dipinti nubiani. Lasciti murali mossi dall’estremo sincretismo linguistico e sociale, una miscela di mondi (arabo, greco, bizantino, copto e nubiano stesso) che si riverbera in documenti come il Salterio poliglotta (XII-XIV secolo), composto da cinque colonne di testo e alfabeti diversi – etiopico, siriaco, copto, arabo, armeno – e nellerappresentazioni di vescovi e dignitari della Nubia provenienti da Faras. Concepita cronologicamente, la terza e ultima parte della mostra affronta l’eredità di Bisanzio in Africa ed esplora i modi in cui gli artisti africani continuino a trovarvi ispirazione.

Su un arco temporale di quasi due millenni, “Africa & Byzantium”, oltre a restituire il corretto ruolo del continente africano nel Medioevo globale, semina il campo critico di una miriade di evidenze visive per le analisi a venire. Suggestioni e contaminazioni che aprono a future indagini iconografiche e a una più complessiva ricalibrazione delle coordinate spazio-temporali, andando oltre le latitudini convenzionali del terreno bizantino. Come ha fatto eloquentemente il Met. Perché rispetto, conoscenza e consapevolezza si coltivano guardando e muovendosi verso qualche parallelo o meridiano differente. Attraversando il Mediterraneo o, in questo caso, l’Oceano Atlantico.

avvenire.it

Toulouse-Lautrec oltre il mito, la sua Parigi a Rovigo


 Nel centro di Rovigo il rinascimentale palazzo Roverella custodisce come uno scrigno fino al 30 giugno il cuore della Parigi di fine Ottocento, straordinario concentrato di innovazione e distruzione, passaggio epocale per la storia dell'arte e non solo.

"Viene indicata come Belle Epoque solo per contrappasso dopo la prima guerra mondiale, in realtà epoca di stravolgimenti sociali", spiega Francesco Parisi.

A dominare quella metropoli c'era il nido di viuzze come paglia intrecciata di Montmartre dove Henri de Toulouse-Lautrec passò gli anni più intensi e distruttivi della sua breve vita.
Ora la multiforme creatività di questo artista scomparso ad appena 37 anni, segnato da una grave malattia genetica, travolto dall'alcolismo e dalle passioni, rivive in una grande mostra che ne porta il nome e non solo ne racconta i vari aspetti, ma li immerge nella realtà a cui si ispiravano in assoluta originalità superando il limite che lo vede consegnato alla storia come semplice, seppur geniale e assolutamente mitizzato, creatore di affissioni.
"Una mostra che rimette l'artista al centro del suo contesto", dice Fanny Girard. Si perché anche qui i suoi schizzi, i disegni, i manifesti, i dipinti dimostrano ancora una volta che l'aristocratico artista che aveva scelto il mondo bohemienne non apparteneva a nessuna corrente ma viaggiava sul filo intelligente quasi veggente dell'innovazione, intravedendo fili e temi del mondo che verrà. C'è il dinamismo gioioso delle ballerine del Moulin Rouge e la disperazione delle periferie del mondo industriale, c'è il tratto grafico della pubblicità e il colore assoluto e decontestualizzato dell'astrattismo.
Ma nelle 200 opere raccolte a palazzo Roverella non c'è solo lui. Ci sono i suoi maestri come Corman, i pittori che ha amato come Degas, i suoi compagni di studi come van Gogh e poi ci sono Boldini, De Nittis solo per citarne alcuni. La mostra è curata da Jean-David Jumeau-Lafond, Francesco Parisi e Fanny Girard - che dirige il museo dedicato all'artista ad Albi - con la collaborazione di Nicholas Zmelty e propone svariati approfondimenti tematici che come spiega il pronipote Bernard du Vignaud alla presentazione di stamattina a Rovigo "aprono molte porte del tutto originali sul mio prozio e lo rimettono al centro della sua epoca". A partire da quello che racconta "Parigi 1885-1900", "Le Chat Noir" ovvero il caffè in cui si trovavano, "Toulouse-Lautrec e gli amici artisti" come van Gogh e "Il rinnovamento della grafica", poi quello sull'assenzio che porterà una generazione alla rovina fino ad essere vietato bel 1914.
Molto importante poi è la sezione inedita dedicata al movimento artistico francese "Les Arts Incohérents", anticipatore di tecniche adottate dalle avanguardie del Novecento. Questa sezione, a cura di Johan Naldi, presenta opere assolutamente inedite perché si pensavano smarrite e sono state ritrovate nel 2018 nella cantina di un discendente degli artisti e qui vengono per la prima volta esposte. Qui c'è la prima opera monocroma della storia. "Insomma - riassume Parisi - non una mostra superficiale come quelle su di lui che si sono succedute negli ultimi 30 anni, ma una mostra con solide basi scientifiche per fare di Palazzo Roverella un luogo di ricerca".
Questo grazie anche al sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e di Intesa Sanpaolo. 

ansa.it

Superstar del Duecento, a Perugia il Maestro di San Francesco

 

Ha toccato i vertici della pittura del Duecento ma resta senza nome l' artista che ha raccontato San Francesco nella meravigliosa biografia per immagini realizzata a secco in tempi da record tra il 1255 e il 1260 nella navata unica della Basilica Inferiore di Assisi.

L' autore di quel capolavoro e delle vetrate nella Basilica Superiore, che con i fondamenti concettuali di Bonaventura da Bagnoregio pose Francesco al centro del progetto che lo indicava come il salvatore della Chiesa e del mondo, fu il protagonista di una svolta radicale che venne oscurata in breve tempo dall' arrivo sulla scena di Cimabue.

''Fu l' ultimo fuoco di artificio dell' eredità bizantina che sarà spazzata via da Giotto'', dice Andrea De Marchi, curatore con Veruska Picchiarelli e Emanuele Zappasodi, della mostra che la Galleria Nazionale dell' Umbria gli dedica dal 10 marzo al 9 giugno, nella ricorrenza degli 800 anni delle stimmate del Santo morto nel 1226. ''L' enigma del Maestro di San Francesco. Lo stil novo del Duecento umbro'' si snoda, appunto, tra il museo del capoluogo e Assisi, riunendo per la prima volta sette delle nove opere attribuite all' artista sconosciuto e altre cinquanta per contestualizzare il racconto, con arrivi di rarità da musei stranieri prestigiosi - Louvre, National Gallery di Londra, Metropolitan Museum di New York, National Gallery di Washington. L' obiettivo è ''accendere i riflettori su un giro di boa fondamentale della storia dell' arte'' e proporre un itinerario nei luoghi in cui operò il pittore - chiamato sul finire dell' 1800 dallo studioso tedesco Henry Thode ''Maestro di'' come accadde per molti altri artisti dell' epoca noti per i soggetti raffigurati ma non identificabili per l' assenza di firma e documentazione.
Punto di partenza e fulcro del percorso è la enorme Croce Dipinta datata 1272, di quasi cinque metri - tra le più grandi con quella di Cimabue mai realizzate in Italia - posta all' ingresso della Gnu di cui ormai rappresenta il simbolo. Un capolavoro mozzafiato per lo splendore dei colori e la bellezza del soggetto, il crocifisso descritto nella sua sofferenza di uomo, il corpo piegato su un lato, con gli occhi chiusi, l' esatto contrario del Cristo trionfante sulla morte, eretto e con gli occhi aperti dell' epoca precedente come quello di San Damiano. La grande Croce, dipinta per la chiesa perugina di San Francesco al Prato, si richiamava al modello realizzato nel 1236 da Giunta Pisano, conservata nel museo della Porziuncola e concessa per l' esposizione con un' altra tavola fondamentale, Francesco tra due angeli, realizzata dal maestro di San Francesco sull' asse di legno sulla quale secondo la tradizione fu appoggiato il corpo morto del Santo. Assisi, dopo la canonizzazione nel 1228 e la posa della prima pietra della basilica due anni dopo, divenne un cantiere internazionale con l' arrivo di artisti francesi e tedeschi. In questo clima effervescente, il Maestro raccontò Francesco dipingendo i momenti salienti della sua vita su un lato della navata in dialogo con le scene della vita di Gesù sul lato opposto, appunto per rafforzare l' idea che il santo povero fosse il Nuovo Cristo, anche in virtù delle stimmate ricevute. Le scene erano un tripudio di colori e decorazioni fino ai piccoli specchi disseminati nel blu della intera volta per simulare, illuminate dalle fiaccole, le stelle nella notte. Tinte oggi sbiadite che rendono solo lontanamente l'idea dello sfarzo pensato per l' epoca. Nel 2016 un ospite 'speciale' in visita alla Galleria Nazionale dell' Umbria davanti al grande Crocifisso del Maestro di San Francesco riassunse in una sola frase la chiave di lettura della mostra che sta per aprirsi: ''Qui c' è Giunta Pisano ma non c'è ancora Cimabue''. Non era il parere di uno storico dell' arte di lungo corso ma il commento ammirato del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. 

ansa.it