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Da Genova all'Irlanda, 10 canzoni per 10 viaggi

GENOVA - Da Genova all'Irlanda, ecco 10 canzoni italiane che celebrano 10 luoghi in Italia e nel mondo.
Ragazzo della via Gluck
E’ una vera denuncia ambientalista quella che caratterizza la ballata folk, scritta e interpretata da Adriano Celentano al festival di Sanremo del 1966. Via Gluck, oggi vicino alla stazione centrale di Milano, era la strada dove Celentano viveva con la sua famiglia; nel testo emerge un rimpianto nostalgico di un mondo perduto, quello della sua infanzia e adolescenza, quando la via era ancora poco urbanizzata. Là dove c'era l'erba ora c'è una città e quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà.
Via del Campo
Scritta e interpretata da Fabrizio De Andrè nel 1967, la canzone è un omaggio poetico a Genova, città natale del cantautore. Via del Campo è una strada lastricata del centro storico del capoluogo ligure che si perde tra i carruggi del cuore antico della città. Ai tempi in cui fu scritta era una tra le vie più povere e degradate di Genova, dove vivevano i ceti sociali più bassi e le prostitute C'è una graziosa gli occhi grandi color di foglia tutta notte sta sulla soglia vende a tutti la stessa rosa. La musica del brano venne scritta da altri due mostri sacri, Enzo Jannacci e il premio Nobel Dario Fo.
Messico e nuvole
Scritta dal paroliere Vito Pallavicini con Michele Virano e Paolo Conte, la canzone Messico e nuvole è stata interpretata da vari artisti, in particolare da Enzo Jannacci nel 1970, da Paolo Conte nel 1989 e da Fiorella Mannoia nel 2004, che l’hanno riproposta sempre con grande fortuna e successo. Il brano parla di un amore verso una donna che vive in Messico, un amore di contrabbando. L’uomo osserva con malinconia il cielo, pensando al suono di un’armonica e alla donna che vive la faccia triste dell’America.
Roma capoccia
E’ una dichiarazione d’amore di Antonello Venditti a Roma, la città natale, che l’autore descrive nel vecchio e nel nuovo, nel sacro e nel profano, con guizzanti immagini di vita vissuta dei quartieri. Il brano, scritto nel 1972 con il collega Francesco De Gregori per la trasmissione radiofonica Supersonic, regalò subito una grande notorietà al cantautore romano; tuttora la canzone rappresenta, come poche nella storia della discografia italiana, il profondo rapporto emotivo tra Roma e i suoi abitanti.
Napul’è
Scritta da Pino Daniele nel 1977, la canzone è un intimo e sofferto inno d’amore per la propria città, di cui il cantautore napoletano coglie bellezza e contraddizioni, indifferenza e profondità. Il brano ottenne subito un grande successo, testimoniato dal fatto che venne più volte riproposto dallo stesso autore e da altri artisti: toccanti sono le cover di Mina, Gino Paoli e Laura Pausini. Dal 2015, anno della scomparsa del grande cantante e musicista Pino Daniele, inoltre, il brano è diventato l’inno ufficiale della squadra di calcio del Napoli.
California
Scritta da Gianna Nannini nel 1979 con Roberto Vecchioni nell’album America, il brano California segna la notorietà internazionale della cantante senese. E’ una ballata folk dedicata a un Paese che per tante generazioni ha sempre rappresentato il sogno di libertà. Era California, era via di là verso cosa non sapevo ma lo respiravo… Siamo noi la California, siamo noi la libertà.
Firenze
Scritta nel 1980 da Ivan Graziani, personaggio originale e schivo della musica italiana, la canzone Firenze racconta una storia d’amore sfortunata di tre personaggi che vivono per ragioni di studio in una città non loro. La ballata è un dialogo tra il protagonista narrante e Barbarossa, studente irlandese di filosofia, rimasti senza la donna che si contendono; titolo del brano, infatti, è Canzone triste. Testimoni della storia sono l’Arno e Ponte Vecchio.
Il cielo d’Irlanda
Interpretato da Fiorella Mannoia nel 1992, il brano composto da Massimo Bubola è un grande omaggio all’Irlanda e al suo aspetto più caratteristico, il cielo. Dal Donegal alle isole Aran e da Dublino fino al Connemara dovunque tu stia viaggiando con zingari o re, il cielo d'Irlanda si muove con te, il cielo d'Irlanda è dentro di te. E’ una ballata che racconta la bellezza dell’isola verde, della sua luce e della sua potenza paesaggistica.
Primavera a Sarajevo
Presentato al Festival di Sanremo del 2002 da Enrico Ruggeri, Primavera a Sarajevo è un brano folk balcanico, scritto con la moglie Andrea Mirò, che racconta una storia d’amore ambientata nella città bosniaca, devastata dalla guerra degli anni Novanta. E’ un messaggio di speranza, di primavera appunto, tra i tormenti della città. C’è ancora sole a primavera, ti porto sopra la collina e tu verrai. Sopra Dobrinja, dopo Nedzarici, ci sono fiori dedicati a noi.
Vieni a ballare in Puglia
Pubblicato nel 2008 dal rapper Caparezza, il brano è stato un vero tormentone per molte estati; in realtà dietro l’apparente positività dell’invito al ballo, è una denuncia di alcuni temi scottanti, come le morti bianche sul lavoro, avvenute nella città di Molfetta, l’inquinamento ambientale che affligge Taranto e lo sfruttamento degli extracomunitari nei campi della Puglia. Famoso è anche il video, girato tra Egnazia, Fasano e Alberobello.
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Teatro. Siracusa, tragedie al tempo di oggi


«Quando si sta seduti fra queste pietre, anche se non c'è nulla sul palcoscenico senti forte la sensazione di trovarti davanti a uno spazio straordinario, unico, dove si misura l'essenziale, che ti consente ogni volta di confrontarti con una idea del teatro nel senso più grande. I greci si sono inventati un dispositivo per mettere in contatto se stessi e la città con gli dei, intrecciare la politica e i contatti umani. Uno stile ancora cardine nell'Occidente». Roberto Andò, regista trasversale, capace di spaziare dalla prosa al cinema fino alla lirica, è il direttore artistico della Fondazione Inda, l'Istituto nazionale del dramma antico promotore a Siracusa dello storico ciclo di spettacoli classici che lo scorso anno ha portato nella cavea del teatro greco quasi 120mila spettatori: quello che inizia oggi (il 53°) vede la "trilogia" Sette contro Tebe di Eschilo, Fenicie di Euripide e Ranedi Aristofane. Un ritorno a Siracusa per il regista palermitano che aveva diretto anni addietro l'Ortigia Festival. E proprio all'idea del festival guarda Andò anche per gli spettacoli dell'Inda: «La scommessa è far diventare questo ciclo di rappresentazioni un vero festival, per uscire dall'approccio più "museografico" del secolo scorso, e pensarlo come un palcoscenico che accolga lo sguardo della scena contemporanea sul mito e sul classico, un luogo in cui ci si ritrovi intorno a storie precise, dei tragici o della commedia, ma con la temperatura di oggi».

Serve un modo nuovo di animare la tradizione?
«La tradizione di cui spesso si parla è un'invenzione. Poi la tradizione si adatta a un tempo. Quello che non deve esserci è il "custode" della tradizione, che poi in realtà la fa morire. Il teatro permette di verificare ogni volta l'autorevolezza dell'umano: i classici si adattano in maniera speciale a questo. Allora il teatro greco di Siracusa può essere un cantiere con l'obiettivo di mostrare i linguaggi e le forme attraverso cui i registi di talento perpetuano e vivificano la tradizione e quella drammaturgia, e da cui nascano spettacoli in grado di far risuonare ancora più urgenti e vicine a noi le tante domande essenziali sul vivere, sull'amare, sul lottare, sul morire, consegnateci dai tragici».

Cosa raccontano Sette a Tebe Fenicie all'uomo di oggi?
«Sono due modi diversi di raccontare la stessa vicenda: i fatti cruciali coinvolgono i fratelli Eteocle e Polinice, figli di Edipo, e culminano nella loro reciproca uccisione. È una guerra fratricida, una lotta per il potere. Sullo sfondo c'è Tebe, una città assediata e contesa, che, interrogandosi sul proprio destino, si fa emblema di una strenua difesa della democrazia, un tema che oggi sembra riguardarci più che mai».

Due tragedie, e una commedia, le Rane: testo che critica la politica e la gestione del potere nella grande crisi di Atene del 405 a.C.. L'ultima volta che è stata messa in scena a Siracusa, nel 2002, il regista era Luca Ronconi. Con non poche polemiche per i cartelloni con le caricature dei governanti di allora, Berlusconi, Bossi e Fini... 
«Mi chiamò quasi spaventato... "Che faccio adesso?". Scelse di toglierli, ma era solo una chiave per indicare il potere, in quel momento. In realtà lui non era mai stato uno che soffiava sul fuoco dell'attualità e della politica. Si muoveva su rotte diverse. Era piuttosto alieno. Se lo fece è perché lo aveva sentito in quel testo, e c'era la necessità di farlo. Con le Rane Aristofane sfruculiava il potere. Persi i connotati della Atene di allora, il regista deve proporre un registro che aiuti lo spettatore a decifrare quelle parole. A partire dai testi. Senza forzature».

E quale sarà il registro di Giorgio Barberio Corsetti con Ficarra e Picone nei panni di Xantia e Dioniso, reduci dal film "politico" L'ora legale?
«Gli spettacoli vanno visti. Siamo ancora alle prime scene (il debutto sarà il 29 giugno, ndr). Il regista ha la possibilità di giocare con la forza comunicativa di due comici irresistibili. È un testo in cui il teatro fa uno sberleffo al potere. Dopo i due testi tragici che raccontano la lotta per il potere di due fratelli, secondo le visioni di Eschilo ed Euripide, ecco chiudere con l'esilarante contesa su chi è il miglior tragediografo fra i due, con l'opportunità di assistere a una disamina critica degli esiti morali e ideologici di quella stessa poetica. La tragedia come la politica. Lo spettatore può qui chiudere il cerchio».

E quando un comico conquista il potere?
«Ci sono comici involontari che lo conquistano. I veri comici stanno lontani dal potere. Il comico francese Colushe c'ha provato per dimostrare l'incapacità dei politici francesi, raccolse molte simpatie, ma fu poi osteggiato e non c'è riuscito...».

Sono temi che lei affronta nei suoi ultimi scritti e film. Il libro Il trono è vuoto, le pellicole con Toni Servillo protagonista di Viva la libertà e Le confessioni: qui abbiamo il monaco Roberto Salus al G8...Il silenzio che spiazza i potenti. C'è molto del suo lavoro in queste tragedie?
«Riprendendo una battuta di Bertrand Russell – "Tutta la filosofia occidentale è una postilla a Platone" – possiamo dire che "tutta la nostra immaginazione è una postilla alle tragedie". Qui troviamo tutto. Di teatrale nelle Confessioni c'è l'idea che un gruppo di potenti si riunisca in un luogo chiuso a ragionare con un uomo che li sorprende. Muto, in un silenzio devozionale. Un linguaggio che li mette all'angolo. Mette il potere di fronte a domande che stanno in un cielo più alto di quello che hanno costruito. La loro economia diventata teologia viene spiazzata. E vengono sconvolti dalla paura di non avere più il pallino del potere in mano».

In tutto questo c'è qualcosa di Sciascia, a cui lei è stato profondamente legato.
«Nelle Confessioni, anche senza rendermene conto sono finito per rimandare col pensiero a Todo modo. Sciascia è una voce unica nella capacità di declinare i temi politici attraverso la forma del giallo. Si sente il respiro di una coscienza inquieta. Innamorato della verità. Con un grande sentimento di pietà. Prendiamo L'affaire Moro: Sciascia ritiene di restituire autenticità a Moro e di credere alla sua verità, quella che non riconoscono i suoi amici, perché ritenuto non credibile, sotto scacco. Sciascia mostra la pietà. Per gran parte della mia vita ho pensato durante le grandi fasi dei rivolgimenti civili, che non ci fosse la necessità della pietà. Oggi rivendico questo sentimento come possibile. Un'eredità di speranza. Nelle Confessioni ho accettato il rischio di una ipotesi di bene».

E nelle tragedie?
«Ci sono il terrore, il dramma, la paura, ma poi c'è proprio la pietà. Nelle due vicende si insinua il personaggio di Antigone a cui è delegata la possibilità di una via di uscita, della speranza e della pietà. Le tragedie lasciano questo sentimento. È la pietà che spinge alla catarsi. Ed è la pietà che il pubblico cerca. L'interamente umano di fronte a storie e vicende che hanno qualcosa di disumano. Ieri come oggi».

Avvenire

Venezia. Alla Biennale l'arte diventa neohippie

È un augurio, quasi un brindisi il titolo della Biennale 57 che si sta inaugurando in questi giorni a Venezia: Viva arte viva. Una Biennale che dunque vuole presentarsi diversamente dalle precedenti, nelle quali l’idea era mostrare l’attitudine dell’arte a creare mondi o immaginarne i futuri. Questa modellata dalla francese Christine Macel, dal 2000 curatore capo del Centre Pompidou di Parigi, si concentra, almeno a parole, sulla celebrazione della vitalità dell’arte, un inno alla sua capacità di essere, spiega la curatrice, «movimento di estroversione, dall’io verso l’altro, verso lo spazio comune e le dimensioni meno definibili ». Si propone quindi una visione cosmica del ruolo dell’arte nella società, un ruolo più vicino a quello ancestrale. È come se Macel volesse ricordare che l’artista, più che essere un operatore sociale, ha un compito profetico, sapienziale, maieutico, in un’ottica di rifondazione dell’umanesimo. Alla prova dei fatti, però, si rivela non lontana dalla precedente, solo con uno scarto di campo elettivo, ma comunque in qualche modo nostalgica. Tutte le scelte della linea di Macel si radicano sistematicamente nel decennio che corre dal 1967 al 1977, individuandovi temi (l’ambiente, la collettività, il femminismo) e pratica (soprattutto la performance). Questo gettare una luce a che arriva da mezzo secolo fa fatica però a riconoscere che fenomeni apparentemente simili vivono e danno luogo a dinamiche e problematiche differenti. E il rischio del déjà vu – estetico e ideologico – è ricorrente. Il difetto nel manico non è diverso da quello della Biennale 2015 di Okwui Enwezor, dalla quale sembra a parole staccarsi: quanto quella era “neomarxi-sta”, tanto questa è “neohippie”. Ne è sintomatico il modo con cui è sottolineata la centralità del tema del sacro, sistematicamente separato dalla religio. È il sacro degli elementi, considerato come collante comunitario – ma più spesso è una spiritualità dai contorni incerti; condiscendente con la tradizione buddhista e sufi è, a volte, feroce con quella cristiana. Nella mostra di Macel sembra però aleggiare Les Magiciens de la Terre,andata in scena nel 1989 al Pompidou. Viva arte viva sembra quasi esserne una risposta e insieme il tentativo di rileggerne i paradigmi. Abbondano gli artisti provenienti da Sud America, Africa, Asia. Persino l’alto numero di artisti dall’Est europeo sembra indicare la preferenza per uno sguardo periferico, mentre in molti casi la scelta della Macel cade su artisti che interpretano l’arte come un rituale in grado di “fare” comunità attraverso la partecipazione. E così in apertura all’Arsenale alcuni video con riti di indio amazzonici sono accostati a strutture cubiche minimaliste di Rasheed Araeen (uno dei principali contestatori di Les magiciens de la Terre), messi a disposizione dall’artista perché gli spettatori li ricompongano a loro piacimento per creare forme nuove. L’arte come rito laico.
Per dare coerenza alla sua idea Macel costruisce la sua Biennale come un percorso iniziatico in nove tappe che dal Padiglione dei libri e degli artisti, esaltazione dell’arte come otium rispetto al ne-È gotium, passa per quello della Gioia e delle Paure (la necessità di recuperare alla ragione l’importanza delle emozioni) quindi per quelli dello Spazio Comune, della Terra, delle Tradizioni, degli Sciamani, del Dionisiaco, del Colore e infine del Tempo e dell’Infinito. Un percorso che si avvia ai Giardini. L’inizio è in medias res con l’artista americana Dawn Kasper che ha trasferito il proprio studio armi e bagagli nella Sala Chini (ma la fusione arte-vita a distanza di decenni rischia il cliché) mentre subito dopo Olafur Eliasson propone un workshop per la costruzione di lampade modulari. Seguono molte cose già viste (artisti che riciclano, artisti che accumulano, artisti che dipingono copertine di libri...) e insieme delle belle sale personali che valorizzano il medium pittorico, tra recuperi importanti (John Latham), conferme (l’omaggio a Raymond Hains, Kiki Smith) e personalità interessanti ma poco note come l’americano McArthur Binion, il siriano Marwan, le tavole anatomiche del praghese Luboš Plný. All’Arsenale regnano le installazioni. Uno degli elementi che attraversa questi padiglioni è la metafora del cucire e del tessere. Come nei lavori di Maria Lai, che appaiono insuperati nell’individuare poeticamente nei legami la trama di un terreno comune. È storico anche A stitch in time (1968) del filippino David Medalla che invita il pubblico a intervenire su un grande telo condividendo l’atto creativo del ricamo. Appare così una variazione sul tema la performance di Lee Mingwei in cui l’atto di rammendare un vestito portato dal pubblico diventa spunto per “cucire” rapporti personali. Il Padiglione della Terra oscilla tra ambientalismo, ecologismo esoterico, apocalisse. Se c’è uno scarto tra i decenni è che i timori un tempo erano legati alla deflagrazione istantanea di una crisi atomica mentre oggi c’è la coscienza del rischio di una lenta agonia (come le “torri” di sale e litio di Julian Charrière) dovuta al consumo del pianeta. Tra gli apici della mostra, i disegni dell’artista inuit Kananginak Pootoogook che, con un approccio che ricorda il naif del doganiere Rousseau, documenta in modo fedele e allo stesso tempo poetico e ironico una civiltà a rischio ambientale e culturale. Tessuti e tessitura riemergono, non senza il rischio del decorativo, nel padiglione delle Tradizioni, anche se qui l’opera più interessante è l’installazione dell’albanese Anri Sala che combina gli stessi segni su un walldrawing e su un tamburo di carillon, così che la musica è la precisa traduzione sonora dell’elemento grafico e viceversa. C’è confusione anche nel padiglione degli Sciamani (che chiama Beuys a nume tutelare), tra totem decorativi, residui surrealisti e artisti che evocano spiriti di uccelli estinti. Molto bello però il video Un hombre que camina del cileno Enrique Ramirez, girato nel deserto di sale di Uyuni in Bolivia, sul senso di passaggio proprio dello sciamanesimo, sottolineando però la fusione di culti e di tradizioni in una nuova forma complessa di cultura. Il padiglione Dionisiaco è una celebrazione della sessualità femminile (completata dal Leone d’Oro alla carriera alla performer Carolee Schneemann) che si diffonde «nella musica, nella danza nel canto e della trance attraverso cui accedere a nuovi stati di coscienza».
Dopo avere lavorato sul corpo, Christine Macel sembra dimenticarlo nel salto al penultimo padiglione, dedicato ai Colori. Anche qui sono molti i déjà vu. Si staccano l’opera di Karla Black, un’ascensione leggera di fogli di carta, e soprattutto Venice Stream di Takesada Matsutani, ottantenne maestro del Gutai. Un lavoro monumentale, tra i pochi veri capolavori in mostra, realizzato a grafite su una tela lunga 16 metri trasformata del-l’artista in una specie di lastra di metallo. Da una sacca gocciolano inchiostro e acqua che colorano lentissimamente una sfera di legno e una tela bianca. Questo respiro tra immobilità e cambiamento apre nelle intenzione di Macel il capitolo finale, Tempo e Infinito. La curatrice cerca l’approccio metafisico dell’arte contemporanea, ma in una spiritualità immanente come quella indagata fino a ora il mistero latita o al massimo si trasforma in un limbo senza scampo ( Pasajes IV di Sebastián Diaz Morale). Almeno due opere, però, lo raggiungono. One thousand and one night di Edith Dekyndt, che sovrappone un rettangolo di luce, in costante lento movimento, e un uno di sabbia bianchissima, che necessita di essere ciclicamente adeguato nella forma. Il secondo, che chiude con un balzo in alto la Biennale, un po’ defilato in un deposito nel Giardino delle Vergini, è Clock Work di Attila Csörgö. Un gioco di ombre e di riflessi, un meccanismo artigianale, e un orologio si mette a disegnare il tempo dell’infinito. 
avvenire

A Cinecittà World. In scena la sfida tra una Ferrari e la biga di Ben Hur


Per la prima volta una Ferrari sfiderà una biga romana trainata da due cavalli. L'appuntamento con la strana corsa è per giovedì 11 a Cinecittà World, a Castel Romano, e più precisamente nella ricostruzione del Circo di Massenzio dove è stata girata la scena della corsa delle bighe nel remake del film "Ben Hur" del 2016, con Jack Huston e Morgan Freeman. Una Ferrari 458 Italia pilotata da Fabio Barone - il presidente del Ferrari Club Passione Rossa già detentore di due record del mondo di velocità - sfiderà l'originale biga guidata da Charlton Heston nello storico film del 1959, che si aggiudicò

ben 11 premi Oscar. «L'idea è nata dopo aver visto il remake di Ben Hur - spiega Fabio Barone - e l'ho proposta a Stefano Cigarini, che oggi è amministratore delegato di Cinecittà World, ma che è stato a lungo senior vice president entertainment and events della
Ferrari. Così siamo partiti subito con l'organizzazione». La sfida fra la Ferrari e la biga può apparire sbilanciata, ma Barone spiega che non è proprio così. A trainare la biga c'è infatti una coppia di esemplari dell'antica razza Gelder, caratterizzata da forza e grande resistenza, purosangue docili ma di carattere, che da sempre vengono utilizzati per le carrozze e per la sella durante mostre ed esibizioni. «I due cavalli sviluppano una potenza corrispondente a 35 Cv ciascuno - spiega il presidente del Club Passione Rossa - e la loro velocità massima è di 60 km/h, mentre io avrò a disposizione 600 Cv, ma la sfida non sarà impari, perché se è vero che gli animali perdono in rettilineo, guadagnano nelle curve dove possono affrontare una traiettoria strettissima. Inoltre, dalle
prove che abbiamo fatto ho notato che dopo due giri sullo sterrato la Ferrari frena con estrema difficoltà e questo mi costringerà a rallentare». Comunque, «l'obiettivo non è quello di battere la biga, ma di far vincere lo spettacolo. Partiremo a percorsi invertiti e non affiancati. Abbiamo organizzato tutto nei minimi dettagli affinché i bellissimi purosangue siano sempre in sicurezza».

avvenire

I santi del 11 Maggio 2017


Sant' IGNAZIO DA LACONI   Frate cappuccino
Laconi, Nuoro, 17 dicembre 1701 - Cagliari, 11 maggio 1781
Devotissimo e dedito alla penitenza fin da giovane, indossò il saio francescano, nonostante la sua gracile costituzione, e fu dispensiere ed umile questuante nel convento di...
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San FABIO E COMPAGNI   Martiri in Sabina
Nicomedia, III sec. – Curi in Sabina, 305
Il martirio di questo santo è accomunato a quello di un gruppo di martiri e confessori, radunati attorno al maestro, sant'Antimo. Le notizie pervenuteci si leggono nella «Passio sa...
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Santi ANASTASIO, TEOPISTA E FIGLI   Sposi e martiri
† Camerino, Macerata, 251
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Santi 14 MARTIRI MERCEDARI DI CARCASSONA   
† Carcassona, Francia, XVI secolo
A Carcassona in Francia, 14 Santi mercedari, furono messi a morte in diversi modi, per la difesa della fede cattolica dagli eretici Ugonotti. Gloriosi salirono in cielo lodando il ...
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Sant' EVELIO (EVELLIO)   Martire di Roma
† Roma, I secolo (27 aprile 69?)
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San NEPOZIANO   Sacerdote
Aquileia, 360 - Altino, 11 maggio 387
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Sant' ILLUMINATO   Monaco
Sec. XIII
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Santa STELLA (EUSTELLA)   Martire
Gallia, III secolo
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San MOCIO (MOZIO)   Sacerdote e martire
† Bisanzio, Turchia, 295
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San MAIULO   Martire
sec. II ex./III in.
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San MAMERTO DI VIENNE   Vescovo
m. 475 circa
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San MAIOLO   Abate di Cluny
Avignone, 906 c. - Souvigny, Francia, 994
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San GUALTIERO (GUALTERIO) DI ESTERP   Sacerdote
† 11 maggio 1070
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Santi GUALBERTO E BERTILLA   Sposi
VII secolo
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San MATTEO LE VAN GAM   Martire
Long Dai, Vietnam, 1813 - Saigon, Vietnam, 11 maggio 1847
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Sant' ANTIMO E COMPAGNI   Martiri
www.santiebeati.it/dettaglio/90554
San FRANCESCO DE GERONIMO   Sacerdote
Grottaglie (Taranto), 17 dicembre 1642 - Napoli, 11 maggio 1716
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San GENGOLFO   Martire
m. Avallon (Borgogna, Francia), 11 maggio 760
Nacque da una delle più illustri famiglie della Borgogna. I suoi genitori furono i principali fautori della sua educazione cristiana, e quando morirono, il santo dovette iniziare a...
www.santiebeati.it/dettaglio/92374
Beato SERAFINO (GJON) KODA   Sacerdote francescano, martire
Janjevo, Serbia, 25 aprile 1893 – Lezhë, Albania, 11 maggio 1947
Padre Serafin Koda, al secolo Gjon, fu missionario nelle zone montagnose dell’Albania del Nord e, in seguito, parroco a Lezhë. Fu arrestato nel 1947 con il pretesto di u...
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Beato VINCENZO L’HéNORET   Sacerdote e martire
Pont l’Abbé, Francia, 12 marzo 1921 – Ban Ban / Muang Kham, Laos, 11 maggio 1961
Vincent L’Hénoret iniziò gli studi secondari tra i Missionari Oblati di Maria Immacolata e, dopo aver riconosciuto la propria vocazione alla vita religiosa, pro...
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Beati GIOVANNI ROCHESTER E GIACOMO WALWORTH   Sacerdoti certosini, martiri
† York, Inghilterra, 11 maggio 1537
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Beato DIEGO DE SALDANA   Mercedario
† Avila, Spagna, 1493
Al mercedario, Beato Diego de Saldana, si deve la fondazione del celebre convento di Conxo presso Santiago di Compostella (Spagna), del quale ne fu commendatore perpetuo e la fonda...
www.santiebeati.it/dettaglio/94135
Beato GREGORIO CELLI DA VERUCCHIO   Religioso
Verucchio, Rimini, 1225 ca. - Fonte Colombo, Rieti, 1343
Nato a Verucchio nel 1225, a quindici anni vestì l'abito degli eremiti di S. Agostino. Dieci anni più tardi si ritirò a vita eremitica sul Monte Carnerio (nei ...
www.santiebeati.it/dettaglio/91601

Beato ZEFFIRINO NAMUNCURà   Aspirante salesiano
Chimpay, Argentina, 26 agosto 1886 - Roma, 11 maggio 1905
Zeffirino Namuncurà nasce il 26 agosto 1886 a Chimpay, sulle rive del Rio Negro. Suo padre Manuel, ultimo grande cacico delle tribù indios araucane, ha dovuto arrende...
www.santiebeati.it/dettaglio/90072

Beni culturali: Mibact-Enea, ora tagli a bolletta da 200 mln

(Di Daniela Giammusso) (ANSA) - ROMA, 10 MAG - "Si stima che la bolletta energetica del Mibact sia di 200 milioni l'anno. Vanno bene i risultati positivi, ma la buona pubblica amministrazione si vede anche nella gestione quotidiana". A dirlo, il ministro di beni culturali e turismo, Dario Franceschini, oggi al convegno #patrimonioculturaleinclassea, sulla valenza strategica dell'efficienza energetica, riqualificazione e messa in sicurezza del patrimonio culturale. Promosso nell'ambito del Protocollo d'intesa Mibact/Enea firmato nel 2016, l'evento segna anche l'avvio della campagna Patrimonio culturale in Classe A nell'ambito della più ampia campagna Italia in classe A, che l'Enea sta sviluppando in attuazione del Piano triennale di informazione e formazione sull'Efficienza energetica. "Un'opportunità importante per il nostro paese - dice il presidente dell'Enea, Federico Testa - Spesso non si hanno le risorse immediate, ma bisogna entrare nell'ottica che sul medio-lungo periodo queste cose si pagano da sole". Il Protocollo con il Mibact, che segue già le Linee guida del 2015, riguarda check up energetici, diagnostica, restauro laser e protezione antisismica. E permetterà di avviare progetti per la valutazione dell'impronta energetica degli edifici storici, con interventi che, secondo le stime Enea, potrebbero abbattere fino al 30% i consumi per la climatizzazione e fino al 40% quelli per l'illuminazione grazie a lampade a Led e tecnologie smart lighting. "La buona Pubblica Amministrazione - spiega il ministro Franceschini - è anche quella che sa dare il buon esempio. Anzi, bisogna che sia avanti, un punto di riferimento". Quello dei beni culturali, "è un settore enorme - spiega - e ha un consumo energetico altissimo, che in alcuni casi può toccare il 70% del bilancio di un museo o di un'istituzione. Investire sul patrimonio culturale significa anche intervenire sui costi di gestione riducendo i consumi. In tre anni gli investimenti del Mibact sono passati da 40 milioni di euro a oltre 2 miliardi, mentre la bolletta energetica" per il complesso di musei, archivi, biblioteche, siti archeologici "è ancora stimata in 200 milioni di euro". E i consumi, raccontano i numeri, sono in salita del 50% rispetto agli anni '80. A gravare maggiormente, illuminazione, climatizzazione, sicurezza ICT e servizi essenziali per la fruizione e conservazione di strutture e opere d'arte. "Il dovere dell'amministrazione - prosegue il ministro - è dare il buon esempio anche nel risparmio energetico e in questo i musei sono un ottimo banco di prova". Il Protocollo d'intesa, infatti, "si inserisce nella filosofia su cui abbiamo impostato la riforma" del Mibact, introducendo "il bilancio in ogni singolo museo che permette di fare emergere le spese per migliorarle. Finora si è parlato dei meriti della riforma in termini di entrate", conclude citando "i visitatori dei musei statali passati in tre anni da 38 a 45 milioni e mezzo" e "gli incassi cresciuti di 50 milioni, passando da 125 milioni del 2013 a 177. Ora ė tempo di guardare le uscite, intervenendo sui costi per i servizi, grazie alle gare Consip, e per l'energia con questo importante progetto". (ANSA)